FEACI

La profezia di Tiresia

I Feaci sono un mitico popolo di antichi navigatori, molto caro agli dèi. Il loro nome occupa un posto di assoluto rilievo nell'Odissea.

Omero, nel V libro e nei successivi, racconta del fortunoso naufragio di Odisseo sulla perigliosa costa di Schèria, l'isola abitata dai Feaci. Trovato, raccolto e ristorato da Nausìcaa braccio bianco, la bellissima figlia del re Alcìnoo e di sua moglie Arète candido braccio (mater semper certa est), Odisseo viene splendidamente ospitato nella città feacia, e racconta ai suoi ospiti i lunghi viaggi e le terribili avventure che lo hanno portato a vagare per dieci anni e a perdere tutti i compagni.

Racconta a lungo, Odisseo, più volte tentando d'interrompersi a causa dell'ora tarda nella notte:

    «Ma tutte non posso nominarle e contarle
quante ne vidi, spose e figlie d'eroi:
prima l'ambrosia notte sarebbe finita. E' ora, invece
ch'io dorma, o sull'agile nave, salito accanto ai compagni,
o qui [...]»;

Odissea, XI, 328-332

altrettante volte Alcìnoo invitandolo a riprendere l'avvincente narrazione:

    «La notte è lunga, infinita: e non è adesso l'ora
di dormire in palazzo: narrami ancora le tue prodigiose avventure.
Fino all'aurora io resterei, quando tu
acconsentissi a narrarmi le pene tue nella sala».

Odissea, XI, 373-376

E Odisseo racconta: della disavventura presso i Cìconi, del soggiorno presso i mangiatori di Loto, dell'accecamento del Ciclope (libro IX); del soggiorno alle Eolie, della visita a Lamo, presso i Lestrigòni, dove tutte le navi della flotta di Odisseo, salvo la sua (per comprensibili esigenze di regìa), vengono distrutte dai poco accoglienti ospiti, del soggiorno presso Circe, la dea dalla parola umana, che trasforma in porci metà dei compagni di Odisseo e per un intero anno trattiene l'eroe presso di sé (libro X); racconta del viaggio attraverso Oceano, fino alle porte dell'Ade, intrapreso per parlare con Tiresia profeta glorioso (libro XI), e dell'avventura delle Sirene, del passaggio tra Scilla e Cariddi, della profanazione delle vacche del Sole ad opera dei poco avveduti compagni di Odisseo, che definitivamente condanna la nave al naufragio e gli stessi compagni alla morte, e costringe lo stesso eroe, dopo aver atteso a lungo - precariamente appeso ad un gran fico - che Scilla risputasse la chiglia e l'albero della nave (evidentemente poco digeribili), a vagare per dieci giorni in balia dei flutti sul relitto della nave distrutta, fino a raggiungere l'isola Ogigia, dove vive Calipso, tremenda dea dalla parola umana (anche lei), e dove Odisseo resterà per ben sette anni (libro XII).

Promettono allora i Feaci, ospiti magnifici e generosi, di aiutare l'eroe e di riaccompagnarlo in patria con una delle loro navi, incuranti sia dall'ostilità di Poseidone Enosìctono, dio del mare, adirato con Odisseo per via dello sgarbo nei confronti di suo figlio Polifemo, sia di un oscuro presagio che grava sul popolo feacio.
Ricorda infatti Alcìnoo:

    «Solo questo una volta udii predire dal padre,
da Nausìtoo: diceva che si adirerà Poseidone
con noi, ché di tutti siamo i trasportatori impuniti.
Un giorno - diceva - una solida nave delle genti feace
tornante da un accompagno sul mare nebbioso,
distruggerà, e poi coprirà la nostra città d'un gran monte.
Così parlava il vecchio, e questo il dio compirà
o lascerà incompiuto, come piace al suo cuore».

Odissea, VIII, 564-571

Giunti al libro XIII, dopo l'ennesimo banchetto, cinquantadue giovani feaci (i riferimenti numerologici si sprecano), robusti rematori, riescono finalmente a riportare ad Itaca Odisseo, e lo lasciano addormentato come un angioletto sulla spiaggia dell'isola, circondato da molti doni e da grandi ricchezze; e al suo risveglio prenderà avvio l'ultima parte della vicenda narrata dall'Odissea, che si concluderà con la lotta di Odisseo contro i centootto Proci e la loro cruenta uccisione.

Non deve stupire più di tanto la pur notevole impresa marinara dei Feaci, se prestiamo fede alle parole con cui Alcìnoo - rivolgendosi ad Odisseo per chiedergli il nome e la patria - descrive la tecnologia navale di cui disponeva il suo popolo:

    «Di' il nome, come laggiù ti chiamavano il padre e la madre,
e gli altri in città e quanti vivono intorno;
certo nessuno tra gli uomini è senza nome,
né il vile né il nobile, appena sia nato:
a tutti i genitori lo dànno, come li mettono al mondo.
    E dimmi la terra, il popolo tuo, la città,
sicché ti ci portino guidate dal pensiero le navi.

    Perché i Feaci non hanno nocchieri,
non ci sono timoni, come ne han l'altre navi,
ma sanno da sole il pensiero e l'intendimento degli uomini,

e san le città e i pingui campi di tutti,
e l'abisso del mare velocissime passano,
di nebbia e nube fasciate; mai hanno paura
di subir danno o d'andar perdute».

Odissea, VIII, 555-563

Strepitosa potenza dell'eloquio omerico: che parlava già - inconsapevolmente ma in senso proprio, così fondando la radice etimologica del termine con un anticipo di quasi 3000 anni su Wiener - di cibernetica e di psicocibernetica, termini che derivano appunto da kubernhthV, nocchiero, colui che guida la nave, e da yukh, anima.

Non resta lettera morta, purtroppo, il presagio di Nausìtoo, padre di Alcìnoo: Poseidone Enosìctono, non potendo accanirsi oltre sul povero Odisseo, pupillo di Atena glaucopide e benvoluto dallo stesso Zeus che raduna le nuvole, decide di scaricare la sua collera sui Feaci, rei d'avergli mancato di rispetto trasportando un che non dovean trasportare.
Mai la nave feacia arriverà a Schèria, quella nave che correva sicura, diritta, più veloce del nibbio, dello sparviero, e dietro l'onda del mare urlante spumeggiava sconvolta; perché Poseidone, quando già la nave è in vista della città - affinché tutti i Feaci possano assistere dalla riva alla punizione divina - la trasformerà in pietra, fermandola nella sua rapida corsa e radicandola nel profondo del mare.
E altro dei nobili Feaci l'Odissea più non racconta, se non che Poseidone riconferma l'intenzione di compìre il presagio coprendo la città d'un gran monte, e che Alcìnoo, nel tentativo di allontanare la terribile prospettiva, stabilisce un sacrificio di dodici tori scelti al sire Poseidone e decide che i Feaci mai più avrebbero trasportato per mare altri mortali. E non ci dice come va a finire.

Il sonno che coglie Odisseo durante il viaggio da Schèria ad Itaca, già di per sé piuttosto strano per il fatto che non cessa neanche al momento dello sbarco (né gli accompagnatori, incomprensibilmente, svegliano il passeggero), non sembra essere un elemento incidentale della narrazione o una delle tante formule poetiche famigliari all'Odissea (mai si obbligano gli uomini a dormire nei tragitti per mare; ed anzi, ad esempio, durante il viaggio dalle Eolie ad Itaca lo stesso Odisseo vegliò ininterrottamente per ben nove giorni al timone della sua nave, addormentandosi giusto quell'attimo necessario per consentire ai suoi compagni di combinare il solito disastro); sembra piuttosto un segno molto preciso, così evidente ed importante da essere più volte sottolineato e preannunziato durante la narrazione. Ad esempio dice Arète ad Odisseo (dopo avergli fatto ricchi doni e esortandolo a chiudere bene l'arca che li conteneva):

    «Vedi tu ora il coperchio, facci un abile nodo,
che in viaggio nessuno lo forzi, quando tu appunto
dormirai dolce sonno, viaggiando sopra la nave nera».

Odissea, VIII, 443-445

Vi sono altri elementi che rendono sospetto il viaggio di ritorno di Odisseo:

bulletla sua mai definita durata temporale, indirettamente rafforzata e resa più ambigua dalle ripetute affermazioni di Alcìnoo che dice le sue navi poter accompagnare chiunque dovunque, ed esser di ritorno in giornata; detto per inciso, sembra tantomeno necessario addormentarsi, se il viaggio dura al più poche ore!
bulletil fatto che, contrariamente a quanto normalmente avviene nell'Odissea, non si parla né del mare né del vento come degli elementi che permettono od ostacolano il viaggio di Odisseo; tale viaggio pare dipendere esclusivamente dal vigore dei rematori feaci che rovesciavano il mare con il remo

Alla luce di tutto ciò viene da pensare che il sonno di Odisseo sia un elemento simbolico (o magico) necessario per consentire non un viaggio reale, lungo una comune rotta marittima, ma il viaggio, impossibile per la ragione umana, tra il mondo degli dèi, dove Odisseo è rimasto intrappolato per dieci anni, e il mondo degli uomini.

Cambia allora la prospettiva sotto cui si possono osservare molti degli elementi che ho qui accennato: 

bulletdavvero essenziale, e per nulla incidentale né casuale, è la funzione dei Feaci, che donano ad Odisseo un ritorno che nessun mortale gli avrebbe mai potuto donare, né lui da solo avrebbe potuto ottenere;
bulletdavvero aveva ragione d'essere arrabbiato Poseidone, che nel recinto invalicabile del mondo divino giocava con Odisseo come un gatto gioca con il topo; e i Feaci gliel'avevan fatto scappare!
bulletdavvero aveva ragione Alcìnoo di parlare di navi guidate dal pensiero, perché magiche erano le sue navi, e percorrevano non rotte marittime, ma spazî onirici e mitologici;
bulletdavvero sapeva di cosa parlava Zeus (e chi potrebbe negarlo?) quando diceva i Feaci parenti di Dèi (Odissea, V, 35).

E da ultimo viene da pensare che Alcìnoo, quando dopo il disastro della nave feacia dice:

    «Ma su, come io dico facciamo tutti d'accordo:
smettete d'accompagnare mortali, quando pur venga qualcuno
alla nostra città».

Odissea, XIII, 179-181

non stia forse esponendo un principio amministrativo, ma piuttosto chiudendo una via di comunicazione tra il cielo e la terra.

Parlando d'Ulisse non è possibile non andare oltre. E oltre il termine del racconto omerico si situa l'ultimo episodio dell'avventura umana di Ulisse, che già si delineava nelle parole con cui l'indovino Tiresia (indiscusso campione di presenzialismo delle tragedie e dei poemi epici), interrogato dall'eroe alle porte dell'Ade, lo spingeva a riprendere il mare subito dopo la punizione dei Proci (XI, 119-125), ma che possiamo apprendere nella sua stupendamente tragica conclusione da altra, non meno nobile, fonte:

[...] «Quando
    mi diparti' da Circe, che sottrasse
me più d'un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enea la nomasse,
    né dolcezza di figlio, né la pièta
del vecchio padre, né 'l debito amore
lo qual dovea Penelopé far lieta,
    vincer potero dentro a me l'ardore
ch'i' ebbi a divenir del mondo esperto,
e de li vizi umani e del valore;
    ma misi me per l'alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.
    L'un lito e l'altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l'isola d'i Sardi,
e l'altre che quel mare intorno bagna.
    Io e ' compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov'Ercule segnò li suoi riguardi,
    acciò che l'uom più oltre non si metta:
da la man destra mi lasciai Sibilia,
da l'altra già m'avea lasciata Setta.
    "O frati'', dissi "che per cento milia
perigli siete giunti a l'occidente,
a questa tanto picciola vigilia
    d'i nostri sensi ch'è del rimanente,
non vogliate negar l'esperienza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
    Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza''.
    Li miei compagni fec'io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;
    e volta nostra poppa nel mattino,
de' remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.
    Tutte le stelle già de l'altro polo
vedea la notte e 'l nostro tanto basso,
che non surgea fuor del marin suolo.
    Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che 'ntrati eravam ne l'alto passo,
    quando n'apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non n'avea alcuna.
    Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto,
ché de la nova terra un turbo nacque,
e percosse del legno il primo canto.
    Tre volte il fé girar con tutte l'acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com'altrui piacque,
    infin che 'l mar fu sovra noi richiuso».

Dante, Inferno, XXVI    (ascolta in mp3)

 

aggiornato il 23/01/2010

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