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I Feaci sono un mitico popolo di antichi navigatori, molto caro agli dèi. Il loro nome occupa un posto di assoluto rilievo nell'Odissea. Omero, nel V libro e nei successivi, racconta del fortunoso naufragio di Odisseo sulla perigliosa costa di Schèria, l'isola abitata dai Feaci. Trovato, raccolto e ristorato da Nausìcaa braccio bianco, la bellissima figlia del re Alcìnoo e di sua moglie Arète candido braccio (mater semper certa est), Odisseo viene splendidamente ospitato nella città feacia, e racconta ai suoi ospiti i lunghi viaggi e le terribili avventure che lo hanno portato a vagare per dieci anni e a perdere tutti i compagni. Racconta a lungo, Odisseo, più volte tentando d'interrompersi a causa dell'ora tarda nella notte:
altrettante volte Alcìnoo invitandolo a riprendere l'avvincente narrazione:
E Odisseo racconta: della disavventura presso i Cìconi, del soggiorno presso i mangiatori di Loto, dell'accecamento del Ciclope (libro IX); del soggiorno alle Eolie, della visita a Lamo, presso i Lestrigòni, dove tutte le navi della flotta di Odisseo, salvo la sua (per comprensibili esigenze di regìa), vengono distrutte dai poco accoglienti ospiti, del soggiorno presso Circe, la dea dalla parola umana, che trasforma in porci metà dei compagni di Odisseo e per un intero anno trattiene l'eroe presso di sé (libro X); racconta del viaggio attraverso Oceano, fino alle porte dell'Ade, intrapreso per parlare con Tiresia profeta glorioso (libro XI), e dell'avventura delle Sirene, del passaggio tra Scilla e Cariddi, della profanazione delle vacche del Sole ad opera dei poco avveduti compagni di Odisseo, che definitivamente condanna la nave al naufragio e gli stessi compagni alla morte, e costringe lo stesso eroe, dopo aver atteso a lungo - precariamente appeso ad un gran fico - che Scilla risputasse la chiglia e l'albero della nave (evidentemente poco digeribili), a vagare per dieci giorni in balia dei flutti sul relitto della nave distrutta, fino a raggiungere l'isola Ogigia, dove vive Calipso, tremenda dea dalla parola umana (anche lei), e dove Odisseo resterà per ben sette anni (libro XII). Promettono allora i Feaci, ospiti magnifici e generosi, di aiutare l'eroe e di riaccompagnarlo in patria con una delle loro navi, incuranti sia dall'ostilità di Poseidone Enosìctono, dio del mare, adirato con Odisseo per via dello
sgarbo nei
confronti di suo figlio Polifemo, sia di un oscuro presagio che grava sul popolo
feacio.
Giunti al libro XIII, dopo l'ennesimo banchetto, cinquantadue giovani feaci (i riferimenti numerologici si sprecano), robusti rematori, riescono finalmente a riportare ad Itaca Odisseo, e lo lasciano addormentato come un angioletto sulla spiaggia dell'isola, circondato da molti doni e da grandi ricchezze; e al suo risveglio prenderà avvio l'ultima parte della vicenda narrata dall'Odissea, che si concluderà con la lotta di Odisseo contro i centootto Proci e la loro cruenta uccisione. Non deve stupire più di tanto la pur notevole impresa marinara dei Feaci, se prestiamo fede alle parole con cui Alcìnoo - rivolgendosi ad Odisseo per chiedergli il nome e la patria - descrive la tecnologia navale di cui disponeva il suo popolo:
Strepitosa potenza dell'eloquio omerico: che parlava già - inconsapevolmente ma in senso proprio, così fondando la radice etimologica del termine con un anticipo di quasi 3000 anni su Wiener - di cibernetica e di psicocibernetica, termini che derivano appunto da kubernhthV, nocchiero, colui che guida la nave, e da yukh, anima. Non resta lettera morta, purtroppo, il presagio di Nausìtoo, padre di Alcìnoo:
Poseidone Enosìctono, non potendo accanirsi oltre sul povero Odisseo,
pupillo di Atena glaucopide e benvoluto dallo stesso Zeus che
raduna le nuvole, decide di scaricare la sua collera sui Feaci, rei
d'avergli mancato di rispetto trasportando un che non dovean trasportare. Il sonno che coglie Odisseo durante il viaggio da Schèria ad Itaca, già di per sé piuttosto strano per il fatto che non cessa neanche al momento dello sbarco (né gli accompagnatori, incomprensibilmente, svegliano il passeggero), non sembra essere un elemento incidentale della narrazione o una delle tante formule poetiche famigliari all'Odissea (mai si obbligano gli uomini a dormire nei tragitti per mare; ed anzi, ad esempio, durante il viaggio dalle Eolie ad Itaca lo stesso Odisseo vegliò ininterrottamente per ben nove giorni al timone della sua nave, addormentandosi giusto quell'attimo necessario per consentire ai suoi compagni di combinare il solito disastro); sembra piuttosto un segno molto preciso, così evidente ed importante da essere più volte sottolineato e preannunziato durante la narrazione. Ad esempio dice Arète ad Odisseo (dopo avergli fatto ricchi doni e esortandolo a chiudere bene l'arca che li conteneva):
Vi sono altri elementi che rendono sospetto il viaggio di ritorno di Odisseo:
Alla luce di tutto ciò viene da pensare che il sonno di Odisseo sia un elemento simbolico (o magico) necessario per consentire non un viaggio reale, lungo una comune rotta marittima, ma il viaggio, impossibile per la ragione umana, tra il mondo degli dèi, dove Odisseo è rimasto intrappolato per dieci anni, e il mondo degli uomini. Cambia allora la prospettiva sotto cui si possono osservare molti degli elementi che ho qui accennato:
E da ultimo viene da pensare che Alcìnoo, quando dopo il disastro della nave feacia dice:
non stia forse esponendo un principio amministrativo, ma piuttosto chiudendo una via di comunicazione tra il cielo e la terra. Parlando d'Ulisse non è possibile non andare oltre. E oltre il termine del racconto omerico si situa l'ultimo episodio dell'avventura umana di Ulisse, che già si delineava nelle parole con cui l'indovino Tiresia (indiscusso campione di presenzialismo delle tragedie e dei poemi epici), interrogato dall'eroe alle porte dell'Ade, lo spingeva a riprendere il mare subito dopo la punizione dei Proci (XI, 119-125), ma che possiamo apprendere nella sua stupendamente tragica conclusione da altra, non meno nobile, fonte:
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