« Galateo overo de' costumi » di Giovanni della Casa

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[ XXI ] Un'altra maniera si truova di sollazzevoli modi pure posta nel favellare: cioè quando la piacevolezza non consiste in motti, che per lo più sono brievi, ma nel favellar disteso e continuato, il quale vuole essere ordinato e bene espresso e rappresentante i modi, le usanze, gli atti et i costumi di coloro de' quali si parla, sì che all'uditore sia aviso non di udir raccontare, ma di veder con gli occhi fare quelle cose che tu narri: il che ottimamente seppono fare gli uomini e le donne del Boccaccio, come che pure talvolta (se io non erro) si contrafacessero più che a donna o a gentiluomo non si sarebbe convenuto, a guisa di coloro che recitan le comedie. Et a voler ciò fare, bisogna aver quello accidente, o novella o istoria, che tu pigli a dire bene raccolta nella mente, e le parole pronte et apparecchiate, sì che non ti convenga tratto tratto dire: -Quella cosa...- e -Quel cotale...- o -Quel... come si chiama?- o -Quel lavorio- né -Aiutatemelo a dire- e -Ricordatemi come egli ha nome-; perciò che questo è appunto il trotto del cavalier di madonna Orretta! E se tu reciterai un avenimento nel quale intervenghino molti, non dèi dire: -Colui disse...- e -Colui rispose...-, perciò che tutti siamo «colui», sì che chi ode facilmente erra: conviene adunque che chi racconta ponga i nomi e poi non gli scambi. Et oltre a ciò, si dèe l'uomo guardare di non dir quelle cose, le quali taciute, la novella sarebbe non meno piacevole o per aventura ancora più piacevole: -Il tale, che fu figliuol del tale, che stava a casa nella via del Cocomero... no 'l conosceste voi? Che ebbe per moglie quella de' Gianfigliazzi: una cotal magretta, che andava alla messa in San Lorenzo... come, no? Anzi, non conosceste altri!- Un bel vecchio diritto, che portava la zazzera... non ve ne ricordate voi?-; perciò che, se fosse tutto uno che il caso fosse avenuto ad un altro come a costui, tutta questa lunga quistione sarebbe stata di poco frutto, anzi di molto tedio, a coloro che ascoltano e sono vogliosi e frettolosi di sentire quello avenimento, e tu gli aresti fatto indugiare; sì come per aventura fece il nostro Dante:

E li parenti miei furon Lombardi
E Mantovan per patria ambidui;

perciò che niente rilevava se la madre di lui fosse stata da Gazuolo o anco da Cremona. Anzi, apparai io già da un gran retorico forestiero uno assai utile ammaestramento d'intorno a questo, cioè che le novelle si deono comporre et ordinare prima co' soprannomi e poi raccontare co' nomi; perciò che quelli sono posti secondo le qualità delle persone e questi secondo l'appetito de' padri o di coloro a chi tocca. Per la qual cosa colui che, in pensando, fu messer Avaritia, in proferendo sarà messer Erminio Grimaldi, se tale sarà la generale openione che la tua contrada arà di lui, quale a Guglielmo Borsieri fu detto esser di messer Erminio in Genova. E se nella terra ove tu dimori non avesse persona molto conosciuta che si confacesse al tuo bisogno, sì dèi tu figurare il caso in altro paese et il nome imporre come più ti piace. Vera cosa è che con maggior piacere si suole ascoltare e, più, aver dinanzi agli occhi quello che si dice essere avenuto alle persone che noi conosciamo (se l'avenimento è tale che si confaccia a' loro costumi) che quello che è intervenuto agli strani e non conosciuti da noi; e la ragione è questa: che, sapendo noi che quel tale suol far così, crediamo che egli così abbia fatto, e riconosciamolo come presente, dove degli strani non avien così.

[ XXII ] Le parole, sì nel favellare disteso come negli altri ragionamenti, vogliono esser chiare, sì che ciascuno della brigata le possa agevolmente intendere, et oltre a ciò belle in quanto al suono et in quanto al significato, perciò che se tu arai da dire l'una di queste due, dirai più tosto il ventre che l'epa, e, dove il tuo linguaggio lo sostenga, dirai più tosto la pancia che il ventre o il corpo, perciò che così sarai inteso e non franteso, sì come noi Fiorentini diciamo, e di niuna bruttura farai sovenire all'uditore. La qual cosa volendo l'ottimo poeta nostro schifare, sì come io credo, in questa parola stessa, procacciò di trovare altro vocabolo, non guardando perché alquanto gli convenisse scostarsi per prenderlo di altro luogo, e disse:

Ricorditi che fece il peccar nostro
Prender Dio, per scamparne,
Umana carne al tuo virginal chiostro!

E come che Dante, sommo poeta, altresì poco a così fatti ammaestramenti ponesse mente, io non sento perciò che di lui si dica per questa cagione bene alcuno. E certo io non ti consiglierei che tu lo volessi fare tuo maestro in questa arte dello esser gratioso, con ciò sia cosa che egli stesso non fu, anzi in alcuna Cronica trovo così scritto di lui: «Questo Dante per suo sapere fu alquanto presuntuoso e schifo e sdegnoso e, quasi, a guisa di filosofo, mal gratioso, non ben sapeva conversare co' laici». Ma, tornando alla nostra materia, dico che le parole vogliono essere chiare; il che averrà, se tu saprai scegliere quelle che sono originali di tua terra, che non siano perciò antiche tanto che elle siano divenute rance e viete, e, come logori vestimenti, diposte o tralasciate, sì come spaldo et epa et uopo e sezzaio e primaio; et oltre a ciò, se le parole che tu arai per le mani saranno non di doppio intendimento, ma semplici, perciò che di quelle accozzate insieme si compone quel favellare che ha nome «enigma» et in più chiaro volgare si chiama «gergo»:

Io vidi un che da sette passatoi
fu da un canto all'altro trapassato.

Ancora vogliono esser le parole il più che si può appropriate a quello che altri vuol dimostrare, e meno che si può comuni ad altre cose, perciò che così pare che le cose istesse si rechino in mezzo e che elle si mostrino non con le parole, ma con esso il dito: e perciò più acconciamente diremo «riconosciuto alle fattezze» che «alla figura» o «alla imagine»; e meglio rappresentò Dante la cosa detta, quando e' disse:

Che li pesi
fan così cigolar le sue bilancie,

che se egli avesse detto o gridare o stridere o far romore. E più singolare è il dire «il ribrezzo della quartana» che se noi dicessimo «il freddo»; e «la carne soverchio grassa stucca» che se noi dicessimo sazia; e «sciorinare i panni» e non ispandere; et i moncherini e non le braccia mozze; et all'orlo dell'acqua d'un fosso

Stan li ranocchi pur col muso fuori

e non con la bocca: i quali tutti sono vocaboli di singolare significatione, e similmente «il vivagno della tela» più tosto che l'estremità. E so io bene che, se alcun forestiero per mia sciagura s'abbattesse a questo trattato, egli si farebbe beffe di me e direbbe che io t'insegnassi di favellare in gergo overo in cifera, con ciò sia che questi vocaboli siano per lo più così nostrani che alcuna altra natione non gli usa, et usati da altri non gl'intende. E chi è colui che sappia ciò che Dante si volesse dire in quel verso:

Già veggia per mezzul perdere o lulla?

Certo io credo che nessun altro che noi Fiorentini; ma, non di meno, secondo che a me è stato detto, se alcun fallo ha pure in quel testo di Dante, egli non l'ha nelle parole, ma (se egli errò) più tosto errò in ciò, che egli -si come uomo alquanto ritroso- imprese a dire cosa malagevole ad isprimere con parole e per aventura poco piacevole ad udire, che perché egli la isprimesse male. Niun puote, adunque, ben favellare con chi non intende il linguaggio nel quale egli favella, né, perché il Tedesco non sappia latino, debbiam noi per questo guastar la nostra loquela in favellando con esso lui, né contrafarci a guisa di mastro Brufaldo, sì come soglion fare alcuni che per la loro sciocchezza si sforzano di favellar del linguaggio di colui con cui favellano, quale egli si sia, e dicono ogni cosa a rovescio; e spesso aviene che lo Spagniuolo parlerà italiano con lo Italiano, e lo Italiano favellerà per pompa e per leggiadria con esso lui spagnuolo: e non di meno assai più agevol cosa è il conoscere che amendue favellano forestiero che il tener le risa delle nuove sciocchezze che loro escono di bocca. Favelleremo adunque noi nell'altrui linguaggio qualora ci farà mestiero di essere intesi per alcuna nostra necessità, ma nella comune usanza favelleremo pure nel nostro, etiandio men buono, più tosto che nell'altrui migliore, perciò che più acconciamente favellerà un Lombardo nella sua lingua, quale s'è la più difforme, che egli non parlerà toscano o d'altro linguaggio, pure perciò che egli non arà mai per le mani, per molto che egli si affatichi, sì bene i propri e particolari vocaboli come abbiamo noi Toscani. E se pure alcuno vorrà aver risguardo a coloro co' quali favellerà e perciò astenersi da' vocaboli singolari, de' quali io ti ragionava, et in luogo di quelli usare i generali e comuni, i costui ragionamenti saranno perciò di molto minor piacevolezza. Dèe oltre a ciò ciascun gentiluomo fuggir di dire le parole meno che oneste: e la onestà de' vocaboli consiste o nel suono e nella voce loro o nel loro significato, con ciò sia cosa che alcuni nomi venghino a dire cosa onesta e non di meno si sente risonare nella voce istessa alcuna disonestà, sì come rinculare (la qual parola, ciò non ostante, si usa tuttodì da ciascuno); ma se alcuno, o uomo o femina, dicesse per simil modo et a quel medesimo ragguaglio il farsi innanzi che si dice il farsi indrieto, allora apparirebbe la disonestà di cotal parola, ma il nostro gusto per la usanza sente quasi il vino di questa voce e non la muffa.

Le mani alzò con amendue le fiche,

disse il nostro Dante, ma non ardiscono di così dire le nostre donne, anzi, per ischifare quella parola sospetta, dicon più tosto le castagne, come che pure alcune, poco accorte, nominino assai spesso disavedutamente quello che se altri nominasse loro in pruova elle arrossirebbono, facendo mentione per via di bestemmia di quello onde elle sono femine. E perciò quelle che sono, o vogliono essere, ben costumate, procurino di guardarsi non solo dalle disoneste cose, ma ancora dalle parole, e non tanto da quelle che sono, ma etiandio da quelle che possono essere, o ancora parere, o disoneste o sconcie e lorde, come alcuni affermano essere queste pur di Dante:

Se non ch'al viso e di sotto mi venta;

o pur quelle:

Però ne dite ond'è presso pertugio;
.  .  .
Et un di quelli spirti disse: Vieni
Dirieto a noi, ché troverai la buca.

E dèi sapere che, come che due o più parole venghino talvolta a dire una medesima cosa, non di meno l'una sarà più onesta e l'altra meno, sì come è a dire Con lui giacque e Della sua persona gli sodisfece, perciò che questa sentenza, detta con altri vocaboli, sarebbe disonesta cosa ad udire. E più acconciamente dirai «il vago della luna» che tu non diresti il drudo, avegna che amendue questi vocaboli importino «lo amante», e più convenevol parlare pare a dire la fanciulla e l'amica che «la concubina di Titone»; e più dicevole è a donna, et anco ad uomo costumato, nominare le meretrici femine di mondo (come la Belcolore disse, più nel favellare vergognosa che nello adoperare) che a dire il comune lor nome: «Taide è la puttana», e come il Boccaccio disse, «la potenza delle meretrici e de' ragazzi»; ché, se così avesse nominato dall'arte loro i maschi come nominò le femine, sarebbe stato sconcio e vergognoso il suo favellare. Anzi, non solo si dèe altri guardare dalle parole disoneste e dalle lorde, ma etiandio dalle vili, e spetialmente colà dove di cose alte e nobili si favelli; e per questa cagione forse meritò alcun biasimo la nostra Beatrice, quando disse:

L'alto fato di Dio sarebbe rotto
Se Lethé si passasse, e tal vivanda
Fosse gustata sanza alcuno scotto
Di pentimento...,

ché, per aviso mio, non istette bene il basso vocabolo delle taverne in così nobile ragionamento. Né dèe dire alcuno «la  lucerna del mondo» in luogo del sole, perciò che cotal vocabolo rappresenta altrui il puzzo dell'olio e della cucina; né alcuno considerato uomo direbbe che san Domenico fu «il drudo della teologia» e non racconterebbe che i Santi gloriosi avessero dette così vili parole come è a dire:

E lascia pur grattar dove è la rogna,

che sono imbrattate della feccia del volgar popolo, sì come ciascuno può agevolmente conoscere. Adunque, ne' distesi ragionamenti si vogliono avere le sopra dette considerationi et alcune altre, le quali tu potrai più ad agio apprendere da' tuoi maestri e da quella arte che essi sogliono chiamare retorica. E negli altri bisogna che tu ti avezzi ad usare le parole gentili e modeste e dolci, sì che niuno amaro sapore abbiano; et innanzi dirai: -Io non seppi dire- che -Voi non m'intendete- e -Pensiamo un poco se così è come noi diciamo- più tosto che dire: -Voi errate!- o -E' non è vero!- o -Voi non la sapete!-; però che cortese et amabile usanza è lo scolpare altrui, etiandio in quello che tu intendi d'incolparlo, anzi si dèe far comune l'error proprio dello amico, e prenderne prima una parte per sé, e poi biasimarlo o riprenderlo: -Noi errammo la via- e -Noi non ci ricordammo ieri di così fare-; come che lo smemorato sia pur colui solo e non tu. E quello che Restagnone disse a' suoi compagni non istette bene «Voi, se le vostre parole non mentono»,  perché non si dèe recare in dubbio la fede altrui, anzi, se alcuno ti promise alcuna cosa e non te la attenne, non istà bene che tu dichi: -Voi mi mancaste della vostra fede!-, salvo se tu non fossi constretto da alcuna necessità, per salvezza del tuo onore, a così dire; ma, se egli ti arà ingannato, dirai: -Voi non vi ricordaste di così fare-; e se egli non se ne ricordò, dirai più tosto: -Voi non poteste- o -Non vi tornò a mente- che - Voi vi dimenticaste- o -Voi non vi curaste di attenermi la promessa-, perciò che queste sì fatte parole hanno alcuna puntura et alcun veneno di doglienza e di villania; sì che coloro che costumano di spesse volte dire cotali motti sono riputati persone aspere e ruvide, e così è fuggito il loro consortio come si fugge di rimescolarsi tra' pruni e tra' triboli.

[ XXIII ] E perché io ho conosciute di quelle persone che hanno una cattiva usanza e spiacevole, cioè che così sono vogliosi e golosi di dire che non prendono il sentimento, ma lo trapassano e corrongli dinanzi a guisa di veltro che non assanni, per ciò non mi guarderò io di dirti quello che potrebbe parer soverchio a ricordare, come cosa troppo manifesta: e cioè che tu non dèi giammai favellare che non abbi prima formato nell'animo quello che tu dèi dire, ché così saranno i tuoi ragionamenti parto e non isconciatura (ché bene mi comporteranno i forestieri questa parola, se mai alcuno di loro si curerà di legger queste ciancie). E se tu non ti farai beffe del mio ammaestramento, non ti averrà mai di dire: -Ben venga, messere Agostino- a tale che arà nome Agnolo o Bernardo; e non arai a dire -Ricordatemi il nome vostro- e non ti arai a ridire, né a dire - Io non dissi bene- né -Domin, ch'io lo dica!-; né a scilinguare o balbotire lungo spatio per rinvenire una parola: -maestro Arrigo... No, maestro Arabico... O, ve' che lo dissi: maestro Agabito!-: che sono a chi t'ascolta tratti di corda. La voce non vuole esser né roca né aspera, e non si dèe stridere, né per riso o per altro accidente cigolare come le carrucole fanno, né, mentre che l'uomo sbadiglia, pur favellare. Ben sai che noi non ci possiamo fornire né di spedita lingua né di buona voce a nostro senno; chi è o scilinguato o roco non voglia sempre essere quegli che cinguetti, ma correggere il difetto della lingua col silentio e con le orecchie: et anco si può con istudio scemare il vitio della natura. Non istà bene alzar la voce a guisa di banditore, né anco si dèe favellare sì piano che chi ascolta non oda; e se tu non sarai stato udito la prima volta, non dèi dire la seconda ancora più piano, né anco dèi gridare, acciò ch tu non dimostri d'imbizzarrire perciò che ti sia convenuto replicare quello che tu avevi detto. Le parole vogliono essere ordinate secondo che richiede l'uso del favellar comune e non aviluppate et intralciate in qua et in là, come molti hanno usanza di fare per leggiadria, il favellar de' quali si rassomiglia più a notaio che legga in volgare lo instrumento che egli dettò latino che ad uom che ragioni in suo linguaggio; come è a dire:

Imagini di ben seguendo false

e:

Del fiorir queste inanzi tempo tempie;

i quali modi alle volte convengono a chi fa versi, ma a chi favella si disdicono sempre. E bisogna che l'uomo non solo si discosti in ragionando dal versificare, ma etiandio dalla pompa dello arringare: altrimenti sarà spiacevole e tedioso ad udire, come che per aventura maggior maestria dimostri il sermonare che il favellare; ma ciò si dèe riservare a suo luogo, ché chi va per via non dèe ballare, ma caminare, con tutto che ogniuno non sappia danzare et andar sappia ogniuno (ma conviensi alle nozze e non per le strade!). Tu ti guarderai adunque di favellar pomposo: «Credesi per molti filosofanti...», e tale è tutto il Filocolo e gli altri trattati del nostro m(esser) Giovan Boccaccio, fuori che la maggior opera, et ancora più di quella, forse, il Corbaccio. Non voglio perciò che tu ti avezzi a favellare sì bassamente come la feccia del popolo minuto e come la lavandaia e la trecca, ma come i gentiluomini; la qual cosa come si possa fare ti ho in parte mostrato di sopra, cioè se tu non favellerai di materia né vile, né frivola, né sozza, né abominevole. E se tu saprai scegliere fra le parole del tuo linguaggio le più pure e le più proprie e quelle che miglior suono e miglior significatione aranno, sanza alcuna rammemoratione di cosa brutta, né laida, né bassa, e quelle accozzare, non ammassandole a caso, né con troppo scoperto studio mettendole in filza, et, oltre a ciò, se tu procaccerai di compartire discretamente le cose che tu a dire arai, e guardera'ti di congiungere le cose difformi tra sé, come:

Tullio e Lino e Seneca morale,

o pure:

L'uno era Padovano e l'altro laico,

e se tu non parlerai sì lento, come svogliato, né sì ingordamente, come affamato, ma come temperato uomo dèe fare, e se tu proferirai le lettere e le sillabe con una convenevole dolcezza, non a guisa di maestro che insegni leggere e compitare a' fanciulli, né anco le masticherai né inghiottiraile appiccate et impiastricciate insieme l'una con l'altra; se tu arai adunque a memoria questi et altri sì fatti ammaestramenti, il tuo favellare sarà volentieri e con piacere ascoltato dalle persone, e manterrai il grado e la degnità che si conviene a gentiluomo bene allevato e costumato.

[ XXIV ] Sono ancora molti che non sanno restar di dire, e, come nave spinta dalla prima fuga per calar vela non s'arresta, così costoro trapportati da un certo impeto scorrono e, mancata la materia del loro ragionamento, non finiscono per ciò, anzi, o ridicono le cose già dette, o favellano a vòto. Et alcuni altri tanta ingordigia hanno di favellare che non lasciano dire altrui; e come noi veggiamo talvolta su per l'aie de' contadini l'uno pollo tòrre la spica di becco all'altro, così cavano costoro i ragionamenti di bocca a colui che gli cominciò e dicono essi; e sicuramente che eglino fanno venir voglia altrui di azzuffarsi con esso loro, perciò che, se tu guardi bene, niuna cosa muove l'uomo più tosto ad ira, che quando improviso gli è guasto la sua voglia et il suo piacere, etiandio minimo: sì come quando tu arai aperto la bocca per isbadigliare et alcuno te la tura con mano, o quando tu hai alzato il braccio per trarre la pietra et egli t'è subitamente tenuto da colui che t'è di dirieto. Così adunque come questi modi (e molti altri a questi somiglianti) che tendono ad impedir la voglia e l'appetito altrui ancora per via di scherzo e per ciancia sono spiacevoli e debbonsi fuggire, così nel favellare si dèe più tosto agevolare il desiderio altrui che impedirlo. Per la qual cosa, se alcuno sarà tutto in assetto di raccontare un fatto, non istà bene di guastargliele, né di dire che tu lo sai, o, se egli anderà per entro la sua istoria spargendo alcuna bugiuzza, non si vuole rimproverargliele né con le parole né con gli atti, crollando il capo o torcendo gli occhi, sì come molti soglion fare, affermando sé non potere in modo alcuno sostener l'amaritudine della bugia; ma egli non è questa la cagione di ciò, anzi è l'agrume e lo aloe della loro rustica natura et aspera, che sì gli rende venenosi et amari nel consortio degli uomini che ciascuno gli rifiuta. Similmente il rompere altrui le parole in bocca è noioso costume e spiace, non altrimenti che quando l'uomo è mosso a correre et altri lo ritiene. Né quando altri favella si conviene di fare sì che egli sia lasciato et abbandonato dagli uditori, mostrando loro alcuna novità e rivolgendo la loro attentione altrove: ché non istà bene ad alcuno licenziar coloro che altri, e non egli, invitò. E vuolsi stare attento, quando l'uom favella, acciò che non ti convenga dire tratto tratto: -Eh?- o -Come?-; il qual vezzo sogliono avere molti, e non è ciò minore sconcio a chi favella che lo intoppare ne' sassi a chi va. Tutti questi modi e generalmente ciò che può ritenere e ciò che si può attraversare al corso delle parole di colui che ragiona, si vuol fuggire. E se alcuno sarà pigro nel favellare, non si vuole passargli inanzi né prestargli le parole, come che tu ne abbi a dovitia et egli difetto; ché molti lo hanno per male, e spetialmente quelli che si persuadono di essere buoni parlatori, perciò che è loro aviso che tu non gli abbi per quello che essi si tengono e che tu gli vogli sovenire nella loro arte medesima; come i mercatanti si recano ad onta che altri proferisca loro denari, quasi eglino non ne abbiano e siano poveri e bisognosi dell'altrui. E sappi che a ciascuno pare di saper ben dire, come che alcuno per modestia lo nieghi. E non so io indovinare donde ciò proceda, che chi meno sa più ragioni: dalla qual cosa (cioè dal troppo favellare) conviene che gli uomini costumati si guardino, e spetialmente poco sapendo, non solo perché egli è gran fatto che alcuno parli molto sanza errar molto, ma perché ancora pare che colui che favella soprastia in un certo modo a coloro che odono, come maestro a' discepoli; e perciò non istà bene di appropriarsi maggior parte di questa maggioranza, che non ci si conviene: et in tale peccato cadono non pure molti uomini, ma molte nationi favellatrici e seccatrici sì, che guai a quella orecchia che elle assannano. Ma, come il soverchio dire reca fastidio, così reca il soverchio tacere odio, perciò che il tacersi colà, dove gli altri parlano a vicenda, pare un non voler metter sù la sua parte dello scotto, e perché il favellare è un aprir l'animo tuo a chi t'ode, il tacere per lo contrario pare un volersi dimorare sconosciuto. Per la qual cosa, come que' popoli che hanno usanza di molto bere alle loro feste e d'inebriarsi soglion cacciare via coloro che non beono, così sono questi così fatti mutoli mal volentieri veduti nelle liete et amichevoli brigate. Adunque piacevol costume è il favellare e lo star cheto ciascuno, quando la volta viene a lui.

[ XXV ] Secondo che racconta una molto antica cronica, egli fu già nelle parti della Morea un buono uomo scultore, il quale per la sua chiara fama, sì come io credo, fu chiamato per sopranome «maestro Chiarissimo»; costui, essendo già di anni pieno, distese certo suo trattato et in quello raccolse tutti gli ammaestramenti dell'arte sua, sì come colui che ottimamente gli sapea, dimostrando come misurar si dovessero le membra umane, sì ciascuno da sé, sì l'uno per rispetto all'altro, acciò che convenevolmente fossero infra sé rispondenti. Il qual suo volume egli chiamò Il Regolo, volendo significare che secondo quello si dovessero dirizzare e regolare le statue che per lo innanzi si farebbono per gli altri maestri, come le travi e le pietre e le mura si misurano con esso il regolo. Ma, con ciò sia che il dire è molto più agevol cosa che il fare e l'operare; et, oltre a ciò, la maggior parte degli uomini (massimamente di noi laici et idioti) abbia sempre i sentimenti più presti che lo 'ntelletto, e conseguentemente meglio apprendiamo le cose singolari e gli essempi che le generali et i sillogismi (la qual parola dèe voler dire in più aperto volgare «le ragioni»), perciò, avendo il sopra detto valent'uomo risguardo alla natura degli artefici, male atta agli ammaestramenti generali, e per mostrare anco più chiaramente la sua eccellenza, provedutosi di un fine marmo, con lunga fatica ne formò una statua così regolata in ogni suo membro et in ciascuna sua parte come gli ammaestramenti del suo trattato divisavano: e, come il libro avea nominato, così nominò la statua, pur «Regolo» chiamandola. Ora fosse piacer di Dio che a me venisse fatto almeno in parte l'una sola delle due cose che il sopra detto nobile scultore e maestro seppe fare perfettamente, cioè di raccozzare in questo volume quasi le debite misure dell'arte della quale io tratto! Perciò che l'altra di fare il secondo Regolo, cioè di tenere et osservare ne' miei costumi le sopra dette misure, componendone quasi visibile essempio e materiale statua, non posso io guari oggimai fare, con ciò sia che nelle cose appartenenti alle maniere e costumi degli uomini non basti aver la scientia e la regola, ma convenga oltre a ciò, per metterle ad effetto, aver etiandio l'uso, il quale non si può acquistare in un momento né in breve spatio di tempo, ma conviensi fare in molti e molti anni: et a me ne avanzano, come tu vedi, oggimai pochi. Ma non per tanto non dèi tu prestare meno di fede a questi ammaestramenti, ché bene può l'uomo insegnare ad altri quella via per la quale caminando egli stesso errò, anzi, per aventura, coloro che si smarrirono hanno meglio ritenuto nella memoria i fallaci sentieri e dubbiosi che chi si tenne pure per la diritta. E se nella mia fanciullezza, quando gli animi sono teneri et arrendevoli, coloro a' quali caleva di me avessero saputo piegare i miei costumi, forse alquanto naturalmente duri e rozzi, et ammollirgli e polirgli, io sarei per aventura tale divenuto quale io ora procuro di render te, il quale mi dèi essere non meno che figliuol caro. Ché, quantunque le forze della natura siano grandi, non di meno ella pure è assai spesso vinta e corretta dall'usanza, ma vuolsi tosto incominciare a farsele incontro et a rintuzzarla prima che ella prenda soverchio potere e baldanza; ma le più persone nol fanno, anzi, drieto all'appetito sviate e sanza contrasto seguendolo dovunque esso le torca, credono di ubidire alla natura, quasi la ragione non sia negli uomini natural cosa, anzi ha ella, sì come donna e maestra, potere di mutar le corrotte usanze e di sovenire e di sollevare la natura, ove che ella inchini o caggia alcuna volta. Ma noi non la ascoltiamo per lo più, e così per lo più siamo simili a coloro a chi Dio non la diede, cioè alle bestie, nelle quali, non di meno, adopera pure alcuna cosa non la loro ragione (ché niuna ne hanno per se medesime), ma la nostra; come tu puoi vedere che i cavalli fanno, che molte volte -anzi sempre- sarebbon per natura salvatichi, et il loro maestro gli rende mansueti et oltre a ciò quasi dotti e costumati, perciò che molti ne andrebbono con duro trotto, et egli insegna loro di andare con soave passo, e di stare e di correre e di girare e di saltare insegna egli similmente a molti, et essi lo apprendono, come tu sai che e' fanno. Ora, se il cavallo, il cane, gli uccelli e molti altri animali ancora più fieri di questi si sottomettono alla altrui ragione et ubidisconla et imparano quello che la loro natura non sapea, anzi ripugnava, e divengono quasi virtuosi e prudenti quanto la loro conditione sostiene, non per natura, ma per costume, quanto si dèe credere che noi diverremmo migliori per gli ammaestramenti della nostra ragione medesima, se noi le dessimo orecchie? Ma i sensi amano et appetiscono il diletto presente, quale egli si sia, e la noia hanno in odio et indugianla, e perciò schifano anco la ragione e par loro amara, con ciò sia che ella apparecchi loro innanzi non il piacere, molte volte nocivo, ma il bene, sempre faticoso e di amaro sapore al gusto ancora corrotto; perciò che mentre noi viviamo secondo il senso, sì siamo noi simili al poverello infermo, cui ogni cibo, quantunque dilicato e soave, pare agro o salso, e duolsi della servente o del cuoco che niuna colpa hanno di ciò, imperò che egli sente pure la sua propria amaritudine in che egli ha la lingua rinvolta, con la quale si gusta, e non quella del cibo: così la ragione, che per sé è dolce, pare amara a noi per lo nostro sapore, e non per quello di lei. E perciò, sì come teneri e vezzosi, rifiutiamo di assaggiarla e ricopriamo la nostra viltà col dire che la natura non ha sprone o freno che la possa né spingere né ritenere: e certo, se i buoi o gli asini o forse i porci favellassero, io credo che non potrebbon proferire gran fatto più sconcia, né più sconvenevole, sentenza di questa. Noi ci saremmo pur fanciulli e negli anni maturi e nella ultima vecchiezza, e così vaneggeremmo canuti come noi facciamo bambini, se non fosse la ragione, che insieme con l'età cresce in noi, e, cresciuta, ne rende quasi di bestie uomini, sì che ella ha pure sopra i sensi e sopra l'appetito forza e potere, et è nostra cattività e non suo difetto, se noi trasandiamo nella vita e ne' costumi. Non è adunque vero che incontro alla natura non abbia freno né maestro: anzi ve ne ha due, ché l'uno è il costume e l'altro è la ragione, ma, come io ti ho detto poco di sopra, ella non può di scostumato far costumato sanza l'usanza, la quale è quasi parto e portato del tempo. Per la qual cosa si vuole tosto incominciare ad ascoltarla, non solamente perché così ha l'uomo più lungo spatio di avezzarsi ad essere quale ella insegna, et a divenire suo domestico et ad esser de' suoi, ma ancora però che la tenera età, sì come pura, più agevolmente si tigne d'ogni colore, et anco perché quelle cose alle quali altri si avezza prima sogliono sempre piacer più. E per questa cagione si dice che Diodato, sommo maestro di proferir le comedie, volle essere tuttavia il primo a proferire egli la sua, come che degli altri che dovessero dire innanzi a lui non fosse da far molta stima; ma non volea che la voce sua trovasse le orecchie altrui avezze ad altro suono, quantunque verso di sé peggior del suo. Poiché io non posso accordare l'opera con le parole, per quelle cagioni che io ti ho dette, come il maestro Chiarissimo fece, il quale seppe così fare come insegnare, assai mi fia l'aver detto in qualche parte quello che si dèe fare, poiché in nessuna parte non vaglio a farlo io; ma, perciò che in vedendo il buio si conosce quale è la luce et in udendo il silentio sì si impara che sia il suono, sì potrai tu, mirando le mie poco aggradevoli e quasi oscure maniere, scorgere quale sia la luce de' piacevoli e laudevoli costumi. Al trattamento de' quali, che tosto oggimai arà suo fine, ritornando, diciamo che i modi piacevoli sono quelli che porgon diletto, o almeno non recano noia ad alcuno de' sentimenti, né all'appetito, né all'imagination di coloro co' quali noi usiamo: e di questi abbiamo noi favellato fin ad ora.

[ XXVI ] Ma tu dèi oltre a ciò sapere che gli uomini sono molto vaghi della bellezza e della misura e della convenevolezza, e, per lo contrario, delle sozze cose e contrafatte e difformi sono schifi: e questo è spetial nostro privilegio, ché gli altri animali non sanno conoscere che sia né bellezza né misura alcuna; e perciò, come cose non comuni con le bestie, ma proprie nostre, debbiam noi apprezzarle per sé medesime et averle care assai, e coloro viepiù che maggior sentimento hanno d'uomo, sì come quelli che più acconci sono a conoscerle. E come che malagevolmente isprimere appunto si possa che cosa bellezza sia, non di meno, acciò che tu pure abbi qualche contrasegno dell'esser di lei, voglio che sappi che, dove ha convenevole misura fra le parti verso di sé e fra le parti e 'l tutto, quivi è la bellezza: e quella cosa veramente «bella» si può chiamare, in cui la detta misura si truova. E per quello che io altre volte ne intesi da un dotto e scientiato uomo, vuole essere la bellezza uno quanto si può il più e la bruttezza per lo contrario è molti, sì come tu vedi che sono i visi delle belle e delle leggiadre giovani, perciò che le fattezze di ciascuna di loro paion create pure per uno stesso viso; il che nelle brutte non adiviene, perciò che, avendo elle gli occhi per aventura molto grossi e rilevati, e 'l naso picciolo e le guance paffute, e la bocca piatta e 'l mento in fuori, e la pelle bruna, pare che quel viso non sia di una sola donna, ma sia composto d'i visi di molte e fatto di pezzi. E trovasene di quelle, i membri delle quali sono bellissimi a riguardare ciascuno per sé, ma tutti insieme sono spiacevoli e sozzi, non per altro, se non che sono fattezze di più belle donne e non di questa una, sì che pare che ella le abbia prese in prestanza da questa e da quell'altra: e per aventura che quel dipintore che ebbe ignude dinanzi a sé le fanciulle calabresi, niuna altra cosa fece che riconoscere in molte i membri che elle aveano quasi accattato chi uno e chi un altro da una sola; alla quale fatto restituire da ciascuna il suo, lei si pose a ritrarre, imaginando che tale e così unita dovesse essere la bellezza di Venere. Né voglio io che tu ti pensi che ciò avenga de' visi e delle membra o de' corpi solamente, anzi interviene e nel favellare e nell'operare né più né meno, ché, se tu vedessi una nobile donna et ornata posta a lavar suoi stovigli nel rignagnolo della via publica, come che per altro non ti calesse di lei, sì ti dispiacerebbe ella in ciò, che ella non si mostrerebbe pure «una», ma «più», perciò che lo esser suo sarebbe di monda e di nobile donna e l'operare sarebbe di vile e di lorda femina; né perciò ti verrebbe di lei né odore né sapore aspero, né suono né colore alcuno spiacevole, né altramente farebbe noia al tuo appetito, ma dispiacerebbeti per sé quello sconcio e sconvenevol modo e diviso atto.

[ XXVII ] Convienti adunque guardare etiandio da queste disordinate e sconvenevoli maniere con pari studio, anzi con maggiore che da quelle delle quali io t'ho fin qui detto, perciò che egli è più malagevole a conoscer quando altri erra in queste che quando si erra in quelle, con ciò sia che più agevole si veggia essere il sentire che lo 'ntendere. Ma, non di meno, può bene spesso avenire che quello che spiace a' sensi spiaccia etiandio allo 'ntelletto, ma non per la medesima cagione, come io ti dissi di sopra, mostrandoti che l'uomo si dèe vestire all'usanza che si vestono gli altri, acciò che non mostri di riprendergli e di correggerli; la qual cosa è di noia allo appetito della più gente, che ama di esser lodata, ma ella dispiace etiandio al giudicio degli uomini intendenti, perciò che i panni che sono d'un altro millesimo non s'accordano con la persona che è pur di questo; e similmente sono spiacevoli coloro che si vestono al rigattiere: ché mostra che il farsetto si voglia azzuffar co' calzari, sì male gli stanno i panni indosso. Sì che molte di quelle cose che si sono dette di sopra, o per aventura tutte, dirittamente si possono qui replicare, con ciò sia cosa che in quelle non si sia questa misura servata, della quale noi al presente favelliamo, né recato in uno et accordato insieme il tempo e 'l luogo e l'opera e la persona, come si convenia di fare, perciò che la mente degli uomini lo aggradisce e prendene piacere e diletto: ma holle volute più tosto accozzare e divisare sotto quella quasi insegna de' sensi e dello appetito che assegnarle allo 'ntelletto, acciò che ciascuno le possa riconoscere più agevolmente, con ciò sia che il sentire e l'appetire sia cosa agevole a fare a ciascuno, ma intendere non possa così generalmente ogniuno, e maggiormente questo che noi chiamiamo bellezza e leggiadria o avenentezza.

[ XXVIII ] Non si dèe adunque l'uomo contentare di fare le cose buone, ma dèe studiare di farle anco leggiadre: e non è altro leggiadria che una cotale quasi luce che risplende dalla convenevolezza delle cose che sono ben composte e ben divisate l'una con l'altra e tutte insieme, sanza la qual misura etiandio il bene non è bello e la bellezza non è piacevole. E sì come le vivande, quantunque sane e salutifere, non piacerebbono agl'invitati se elle o niun sapore avessero o lo avessero cattivo, così sono alcuna volta i costumi delle persone, come che per se stessi in niuna cosa nocivi, non di meno sciocchi et amari, se altri non gli condisce di una cotale dolcezza, la quale si chiama (sì come io credo) gratia e leggiadria. Per la qual cosa ciascun vitio per sé, sanza altra cagione, convien che dispiaccia altrui, con ciò sia che i vitii siano cose sconcie e sconvenevoli sì, che gli animi temperati e composti sentono della loro sconvenevolezza dispiacere e noia. Per che innanzi ad ogni altra cosa conviene a chi ama di esser piacevole in conversando con la gente il fuggire i vitii e più i più sozzi, come lussuria, avaritia, crudeltà e gli altri, de' quali alcuni sono vili (come lo essere goloso e lo inebriarsi), alcuni laidi (come lo essere lussurioso), alcuni scelerati (come lo essere micidiale): e similmente gli altri, ciascuno in se stesso e per la sua proprietà è schifato dalle persone, chi più e chi meno, ma, tutti generalmente, sì come disordinate cose, rendono l'uomo nell'usar con gli altri spiacevole, come io ti mostrai anco di sopra. Ma perché io non presi a mostrarti i peccati, ma gli errori, degli uomini, non dèe esser mia presente cura il trattar della natura de' vitii e delle virtù, ma solamente degli acconci e degli sconci modi che noi l'uno con l'altro usiamo: uno de' quali sconci modi fu quello del Conte Ricciardo (del quale io t'ho di sopra narrato), che, come difforme e male accordato con gli altri costumi di lui belli e misurati, quel valoroso Vescovo, come buono et ammaestrato cantore suole le false voci, tantosto ebbe sentito. Conviensi adunque alle costumate persone aver risguardo a questa misura che io ti ho detto, nello andare, nello stare, nel sedere, negli atti, nel portamento e nel vestire e nelle parole e nel silentio e nel posare e nell'operare. Per che non si dèe l'uomo ornare a guisa di femina, acciò che l'ornamento non sia uno e la persona un altro, come io veggo fare ad alcuni che hanno i capelli e la barba inanellata col ferro caldo, e 'l viso e la gola e le mani cotanto strebbiate e cotanto stropicciate che si disdirebbe ad ogni feminetta, anzi ad ogni meretrice, quale ha più fretta di spacciare la sua mercatantia e di venderla a prezzo. Non si vuole né putire né olire, acciò che il gentile non renda odore di poltroniero, né del maschio venga odore di femina o di meretrice; né perciò stimo io che alla tua età si disdichino alcuni odoruzzi semplici di acque stillate. I tuoi panni convien che siano secondo il costume degli altri di tuo tempo o di tua conditione, per le cagioni che io ho dette di sopra; ché noi non abbiamo potere di mutar le usanze a nostro senno, ma il tempo le crea, e consumale altresì il tempo. Puossi bene ciascuno appropriare l'usanza comune; ché se tu arai per aventura le gambe molto lunghe e le robe si usino corte, potrai far la tua roba non delle più, ma delle meno, corte, e se alcuno le avesse o troppo sottili o grosse fuor di modo, o forse torte, non dèe farsi le calze di colori molto accesi, né molto vaghi, per non invitare altrui a mirare il suo difetto. Niuna tua vesta vuole essere molto molto leggiadra, né molto molto fregiata, acciò che non si dica che tu porti le calze di Ganimede o che tu ti sii messo il farsetto di Cupido, ma, quale ella si sia, vuole essere assettata alla persona e starti bene, acciò che non paia che tu abbi indosso i panni d'un altro, e sopra tutto confarsi alla tua conditione, acciò che il cherico non sia vestito da soldato e il soldato da giocolare. Essendo Castruccio in Roma con Lodovico il Bavero in molta gloria e trionfo, Duca di Lucca e di Pistoia e Conte di Palazzo e Senator di Roma e Signore e Maestro della corte del detto Bavero, per leggiadria e grandigia si fece una roba di sciamito cremesì, e dinanzi al petto un motto a lettere d'oro: «EGLI È COME DIO VUOLE», e nelle spalle di drieto simili lettere che diceano: «E' SARÀ COME DIO VORRÀ»: questa roba credo io che tu stesso conoschi che si sarebbe più confatta al trombetto di Castruccio che ella non si confece a lui. E quantunque i re siano sciolti da ogni legge, non saprei io tuttavia lodare il re Manfredi in ciò, che egli sempre si vestì di drappi verdi. Debbiamo adunque procacciare che la vesta bene stia non solo al dosso, ma ancora al grado, di chi la porta, et oltre a ciò, che ella si convenga etiandio alla contrada ove noi dimoriamo, con ciò sia cosa che sì come in altri paesi sono altre misure, e non di meno il vendere et il comperare et il mercatantare ha luogo in ciascuna terra, così sono in diverse contrade diverse usanze, e pure in ogni paese può l'uomo usare e ripararsi acconciamente. Le penne che i Napoletani e gli Spagniuoli usano di portare in capo e le pompe e i ricami male hanno luogo tra le robe degli uomini gravi e tra gli abiti cittadini, e molto meno le armi e le maglie; sì che quello che in Verona per aventura converrebbe, si disdirà in Vinegia, perciò che questi così fregiati e così impennati et armati non istanno bene in quella veneranda città pacifica e moderata, anzi paiono quasi ortica o lappole fra le erbe dolci e domestiche degli orti; e perciò sono poco ricevuti nelle nobili brigate, sì come difformi da loro. Non dèe l'uomo nobile correre per via, né troppo affrettarsi, ché ciò conviene a palafreniere e non a gentiluomo, sanza che l'uomo s'affanna e suda et ansa, le quali cose sono disdicevoli a così fatte persone. Né perciò si dèe andare sì lento né sì contegnoso come femina o come sposa, et in camminando troppo dimenarsi disconviene. Né le mani si vogliono tenere spenzolate, né scagliare le braccia, né gittarle, sì che paia che l'uom semini le biade nel campo, né affissare gli occhi altrui nel viso, come se egli vi avesse alcuna maraviglia. Sono alcuni che in andando levano il piè tanto alto come cavallo che abbia lo spavento, e pare che tirino le gambe fuori d'uno staio; altri percuote il piede in terra sì forte che poco maggiore è il romore delle carra; tale gitta l'uno de' piedi in fuori, e tale brandisce la gamba; chi si china ad ogni passo a tirar sù le calze, e chi scuote le groppe e pavoneggiasi: le quai cose spiacciono non come molto, ma come poco avenenti. Ché, se il tuo palafreno porta per aventura la bocca aperta o mostra la lingua, come che ciò alla bontà di lui non rilievi nulla, al prezzo si monterebbe assai e troverestine molto meno, non perché egli fosse per ciò men forte, ma perché egli men leggiadro ne sarebbe. E se la leggiadria s'apprezza negli animali et anco nelle cose che anima non hanno né sentimento, come noi veggiamo che due case ugualmente buone et agiate non hanno perciò uguale prezzo se l'una averà convenevoli misure e l'altra le abbia sconvenevoli, quanto si dèe ella maggiormente procacciare et apprezzar negli uomini?

[ XXIX ] Non istà bene grattarsi sedendo a tavola, e vuolsi in quel tempo guardar l'uomo più che e' può di sputare e, se pure si fa, facciasi per acconcio modo. Io ho più volte udito che si sono trovate delle nationi così sobrie che non isputavano già mai: ben possiamo noi tenercene per brieve spatio! Debbiamo etiandio guardarci di prendere il cibo sì ingordamente che perciò si generi singhiozzo o altro spiacevole atto, come fa chi s'affretta sì, che convenga che egli ansi e soffi con noia di tutta la brigata. Non istà medesimamente bene a fregarsi i denti con la tovagliuola e meno col dito, che sono atti difformi; né risciacquarsi la bocca e sputare il vino sta bene in palese; né in levandosi da tavola portar lo stecco a guisa d'uccello che faccia suo nido, o sopra l'orecchia come barbieri, è gentil costume. E chi porta legato al collo lo stuzzicadenti erra sanza fallo, ché, oltra che quello è uno strano arnese a veder trar di seno ad un gentiluomo e ci fa sovenire di questi cavadenti che noi veggiamo salir su per le panche, egli mostra anco che altri sia molto apparecchiato e provveduto per li servigi della gola; e non so io ben dire perché questi cotali non portino altresì il cucchiaio legato al collo! Non si conviene anco lo abbandonarsi sopra la mensa, né lo empiersi di vivanda amendue i lati della bocca sì che le guance ne gonfino; e non si vuol fare atto alcuno per lo quale altri mostri che gli sia grandemente piaciuta la vivanda o 'l vino, che sono costumi da tavernieri e da Cinciglioni. Invitar coloro che sono a tavola e dire: -Voi non mangiate stamane?- o -Voi non avete cosa che vi piaccia?- o -Assaggiate di questo, o di quest'altro- non mi pare laudevol costume, tutto che il più delle persone lo abbia per famigliare e per domestico, perché, quantunque ciò facendo mostrino che loro caglia di colui cui essi invitano, sono etiandio molte volte cagione che quegli desini con poca libertà, perciò che gli pare che gli sia posto mente e vergognasi. Il presentare alcuna cosa del piattello che si ha dinanzi non credo che stia bene, se non fosse molto maggior di grado colui che presenta, sì che il presentato ne riceva onore, perciò che tra gli uguali di conditione pare che colui che dona si faccia in un certo modo maggior dell'altro e talora quello che altri dona non piace a colui a chi è donato, sanza che mostra che il convito non sia abondevole d'intromessi o non sia ben divisato, quando all'uno avanza et all'altro manca; e potrebbe il signor della casa prenderlosi ad onta; non di meno in ciò si dèe fare come si fa e non come è bene di fare, e vuolsi più tosto errare con gli altri in questi sì fatti costumi che far bene solo. Ma, che che in ciò si convenga, non dèi tu rifiutar quello che ti è porto, ché pare che tu sprezzi e tu riprenda colui che 'l ti porge. Lo invitare a bere (la qual usanza, sì come non nostra, noi nominiamo con vocabolo forestiero, cioè «far brindisi») è verso di sé biasimevole e nelle nostre contrade non è ancora venuto in uso, sì che egli non si dèe fare; e, se altri invitarà te, potrai agevolmente non accettar lo 'nvito e dire che tu ti arrendi per vinto, ringratiandolo, o pure assaggiando il vino per cortesia, sanza altramente bere. E quantunque questo «brindisi», secondo che io ho sentito affermare a più letterati uomini, sia antica usanza stata nelle parti di Grecia, e come che essi lodino molto un buon uomo di quel tempo che ebbe nome Socrate, per ciò che egli durò a bere tutta una notte quanto la fu lunga a gara con un altro buon uomo che si faceva chiamare Aristofane, e la mattina vegnente in su l'alba fece una sottil misura per geometria, che nulla errò, sì che ben mostrava che 'l vino non gli avea fatto noia; e tutto che affermino oltre a ciò che, così come lo arrischiarsi spesse volte ne' pericoli della morte fa l'uomo franco e sicuro, così lo avezzarsi a' pericoli della scostumatezza rende altrui temperato e costumato, e, perciò che il bere del vino a quel modo, per gara, abondevolmente e soverchio è gran battaglia alle forze del bevitore, vogliono che ciò si faccia per una cotal pruova della nostra fermezza e per avezzarci a resistere alle forti tentationi e a vincerle: ciò non ostante a me pare il contrario et istimo che le loro ragioni sieno assai frivole. E troviamo che gli uomini letterati per pompa di loro parlare fanno bene spesso che il torto vince e che la ragion perde, sì che non diamo loro fede in questo: et anco potrebbe essere che eglino in ciò volessino scusare e ricoprire il peccato della loro terra corrotta di questo vitio, con ciò sia che il riprenderla parea forse pericoloso e temeano non per aventura avenisse loro quello che era avenuto al medesimo Socrate per lo suo soverchio andare biasimando ciascuno. Perciò che per invidia gli furono apposti molti articoli di eresia et altri villani peccati, onde fu condannato nella persona, come che falsamente, ché di vero fu buono e catolico secondo la loro falsa idolatria; ma certo perché egli beesse cotanto vino quella notte nessuna lode meritò, perciò che più ne arebbe bevuto o tenuto un tino! E se niuna noia non gli fece, ciò fu più tosto virtù di robusto cielabro, che continenza di costumato uomo. E che che si dichino le antiche croniche sopra ciò, io ringratio Dio che, con molte altre pestilenze che ci sono venute d'oltra monti, non è fino a qui pervenuta a noi questa pessima, di prender non solamente in giuoco, ma etiandio in pregio lo inebriarsi. Né crederò io mai che la temperanza si debba apprendere da sì fatto maestro quale è il vino e l'ebrezza. Il siniscalco da sé non dèe invitare i forestieri, né ritenergli a mangiar col suo signore, e niuno aveduto uomo sarà che si ponga a tavola per suo invito: ma sono alle volte i famigliari sì prosontuosi che quello che tocca al padrone vogliono fare pure essi. (Le quali cose sono dette da noi in questo luogo più per incidenza che perché l'ordine che noi pigliammo da principio lo richiegga).

[ XXX ] Non si dèe alcuno spogliare, e spetialmente scalzare, in publico, cioè là dove onesta brigata sia, ché non si confà quello atto con quel luogo, e potrebbe anco avenire che quelle parti del corpo che si ricuoprono si scoprissero con vergogna di lui e di chi le vedesse. Né pettinarsi né lavarsi le mani si vuole tra le persone, ché sono cose da fare nella camera e non in palese, salvo (io dico del lavar le mani) quando si vuole ire a tavola, perciò che allora si convien lavarsele in palese, quantunque tu niun bisogno ne avessi, affinché chi intigne teco nel medesimo piattello il sappia certo. Non si vuol medesimamente comparir con la cuffia della notte in capo, né allacciarsi anco le calze in presanza della gente. Sono alcuni che hanno per vezzo di torcer tratto tratto la bocca o gli occhi o di gonfiar le gote e di soffiare o di fare col viso simili diversi atti sconci; costoro conviene del tutto che se ne rimanghino, perciò che la dea Pallade -secondamente che già mi fu detto da certi letterati- si dilettò un tempo di sonare la cornamusa, et era di ciò solenne maestra. Avenne che, sonando ella un giorno a suo diletto sopra una fonte, si specchiò nell'acqua e, avedutasi de' nuovi atti che sonando le conveniva fare col viso, se ne vergognò e gittò via quella cornamusa; e nel vero fece bene, perciò che non è stormento da femine, anzi disconviene parimente a' maschi, se non fossero cotali uomini di vile conditione che 'l fanno a prezzo e per arte. E quello che io dico degli sconci atti del viso, ha similmente luogo in tutte le membra, ché non istà bene né mostrar la lingua, né troppo stuzzicarsi la barba, come molti hanno per usanza di fare, né stropicciar le mani l'una con l'altra, né gittar sospiri e metter guai, né tremare o riscuotersi (il che medesimamente sogliono fare alcuni), né prostendersi e prostendendosi gridare per dolcezza: -Oimé, oimé!- come villano che si desti al pagliaio. E chi fa strepito con la bocca per segno di maraviglia e talora di disprezzo, si contrafà cosa laida, sì come tu puoi vedere; e le cose contrafatte non sono troppo lungi dalle vere. Non si voglion fare cotali risa sciocche, né anco grasse o difformi, né rider per usanza e non per bisogno, né de' tuoi medesimi motti voglio che tu ti rida, che è un lodarti da te stesso: egli tocca di ridere a chi ode e non a chi dice! Né voglio io che tu ti facci a credere che, perciò che ciascuna di queste cose è un picciolo errore, tutte insieme siano un picciolo errore, anzi se n'è fatto e composto di molti piccioli un grande, come io dissi da principio; e quanto minori sono, tanto più è di mestiero che altri v'affisi l'occhio, perciò che essi non si scorgono agevolmente, ma sottentrano nell'usanza che altri non se ne avede. E come le spese minute per lo continuare occultamente consumano lo avere, così questi leggieri peccati di nascosto guastano col numero e con la moltitudine loro la bella e buona creanza: per che non è da farsene beffe. Vuolsi anco por mente come l'uom muove il corpo, massimamente in favellando, perciò che egli aviene assai spesso che altri è sì attento a quello che egli ragiona che poco gli cale d'altro; e chi dimena il capo e chi straluna gli occhi e l'un ciglio lieva a mezzo la fronte e l'altro china fino al mento, e tale torce la bocca, et alcuni altri sputano addosso e nel viso a coloro co' quali ragionano; trovansi anco di quelli che muovono sì fattamente le mani come se essi ti volessero cacciar le mosche: che sono difformi maniere e spiacevoli. Et io udii già raccontare (ché molto ho usato con persone scientiate, come tu sai) che un valente uomo, il quale fu nominato Pindaro, soleva dire che tutto quello che ha in sé soave sapore et acconcio fu condito per mano della Leggiadria e della Avenentezza. Ora, che debbo io dire di quelli che escono dello scrittoio fra la gente con la penna nell'orecchio? E di chi porta il fazzoletto in bocca? O di chi l'una delle gambe mette in su la tavola? E di chi si sputa in su le dita? E di altre innumerabili sciocchezze? le quali né si potrebbon tutte raccorre, né io intendo di mettermi alla pruova: anzi, saranno per aventura molti che diranno queste medesime che io ho dette essere soverchie.

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aggiornato il 23/01/2010

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