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[ XI ] Nel favellare si pecca in molti e varii modi, e primieramente
nella materia che si propone, la quale non vuole essere frivola né vile, perciò che gli
uditori non vi badano e perciò non ne hanno diletto, anzi scherniscono i ragionamenti et
il ragionatore insieme. Non si dèe anco pigliar tema molto sottile né troppo isquisito,
perciò che con fatica s'intende dai più. Vuolsi diligentemente guardare di far la
proposta tale che niuno della brigata ne arrossisca o ne riceva onta. Né di alcuna
bruttura si dèe favellare, come che piacevole cosa paresse ad udire, perciò che alle
oneste persone non istà bene studiar di piacere altrui, se non nelle oneste cose. Né
contra Dio né contr'a' Santi, né dadovero né motteggiando si dèe mai dire alcuna cosa,
quantunque per altro fosse leggiadra o piacevole: il qual peccato assai sovente commise la
nobile brigata del nostro messer Giovan Boccaccio ne' suoi ragionamenti, sì che ella
merita bene di esserne agramente ripresa da ogni intendente persona. E nota che il parlar
di Dio gabbando non solo è difetto di scelerato uomo et empio, ma egli è ancora vitio di
scostumata persona, et è cosa spiacevole ad udire: e molti troverai che si fuggiranno di
là dove si parli di Dio sconciamente. E non solo di Dio si convien parlare santamente, ma
in ogni ragionamento dèe l'uomo schifare quanto può che le parole non siano testimonio
contra la vita e le opere sue, perciò che gli uomini odiano in altrui etiandio i loro
vitii medesimi. Simigliantemente si disdice il favellare delle cose molto contrarie al
tempo et alle persone che stanno ad udire etiandio di quelle che, per sé et a suo tempo
dette, sarebbono e buone e sante. Non si raccontino adunque le prediche di frate Nastagio
alle giovani donne, quando elle hanno voglia di scherzarsi, come quel buono uomo che
abitò non lungi da te, vicino a San Brancatio, faceva. Né a festa né a tavola si
raccontino istorie maninconose, né di piaghe né di malattie né di morti o di
pestilentie, né di altra dolorosa materia si faccia mentione o ricordo: anzi, se altri in
sì fatte rammemorationi fosse caduto, si dèe per acconcio modo e dolce scambiargli
quella materia e mettergli per le mani più lieto e più convenevole soggetto. Quantunque,
secondo che io udii già dire ad un valente uomo nostro vicino, gli uomini abbiano molte
volte bisogno sì di lagrimare come di ridere: e per tal cagione egli affermava essere
state da principio trovate le dolorose favole che si chiamarono tragedie, acciò che,
raccontate ne' teatri (come in quel tempo si costumava di fare), tirassero le lagrime agli
occhi di coloro che avevano di ciò mestiere; e così eglino, piangendo, della loro
infirmità guarissero. Ma, come ciò sia, a noi non istà bene di contristare gli animi
delle persone con cui favelliamo, massimamente colà dove si dimori per aver festa e
sollazzo, e non per piagnere: ché, se pure alcuno è che infermi per vaghezza di
lagrimare, assai leggier cosa fia di medicarlo con la mostarda forte, o porlo in alcun
luogo al fumo. Per la qual cosa in niuna maniera si può scusare il nostro Filostrato
della proposta che egli fece piena di doglia e di morte a compagnia di nessuna altra cosa
vaga che di letitia: conviensi adunque fuggire di favellare di cose maninconose, e più
tosto tacersi. Errano parimente coloro che altro non hanno in bocca già mai che i loro
bambini e la donna e la balia loro: -Il fanciullo mio mi fece ieri sera tanto ridere!-
Udite:...- -Voi non vedeste mai il più dolce figliuolo di Momo mio!- -La donna mia è
cotale...- -La Cecchina disse... Certo voi no 'l credereste del cervello ch'ella ha!-.
Niuno è sì scioperato che possa né rispondere né badare a sì fatte sciocchezze, e
viensi a noia ad ogniuno.
[ XII ] Male fanno ancora quelli che tratto tratto si pongono a
recitare i sogni loro con tanta affettione e facendone sì gran maraviglia che è un
isfinimento di cuore a sentirli; massimamente ché costoro sono per lo più tali che
perduta opera sarebbe lo ascoltare qualunque s'è la loro maggior prodezza, fatta etiandio
quando vegghiarono! Non si dèe adunque noiare altri con sì vile materia come i sogni
sono, spetialmente sciocchi, come l'uom gli fa generalmente. E come che io senta dire
assai spesso che gli antichi savi lasciarono ne' loro libri più e più sogni scritti con
alto intendimento e con molta vaghezza, non perciò si conviene a noi idioti, né al comun
popolo, di ciò fare ne' suoi ragionamenti. E certo di quanti sogni io abbia mai sentito
riferire (come che io a pochi soffera di dare orecchie), niuno me ne parve mai d'udire che
meritasse che per lui si rompesse silentio, fuori solamente uno che ne vide il buon messer
Flaminio Tomarozzo, gentiluomo romano, e non mica idiota né materiale, ma scientiato e di
acuto ingegno. Al quale, dormendo egli, pareva di sedersi nella casa di un ricchissimo
spetiale suo vicino, nella quale poco stante, qual che si fosse la cagione, levatosi il
popolo a romore, andava ogni cosa a ruba, e chi toglieva un lattovaro e chi una
confettione, e chi una cosa e chi altra, e mangiavalasi di presente; sì che in poco d'ora
né ampolla né pentola né bossolo né alberello vi rimanea che vòto non fosse e
rasciutto. Una guastadetta v'era assai picciola, e tutta piena di un chiarissimo liquore,
il quale molti fiutarono, ma assaggiare non fu chi ne volesse. E non istette guari che
egli vide venire un uomo grande di statura, antico e con venerabile aspetto, il quale,
riguardando le scatole et il vasellamento dello spetial cattivello e trovando quale vòto
e quale versato e la maggior parte rotto, gli venne veduto la guastadetta che io dissi:
per che, postalasi a bocca, tutto quel liquore si ebbe tantosto bevuto, sì che gocciola
non ve ne rimase; e dopo questo se ne uscì quindi, come gli altri avean fatto: della qual
cosa pareva a m(esser) Flaminio di maravigliarsi grandemente. Per che, rivolto allo
spetiale, gli addimandava: -Maestro, questi chi è? e per qual cagione sì saporitamente
l'acqua della guastadetta bevve egli tutta, la quale tutti gli altri aveano rifiutata?- A
cui parea che lo spetiale rispondesse: -Figliuolo, questi è messer Domenedio; e l'acqua
da lui solo bevuta, e da ciascun altro, come tu vedesti, schifata e rifiutata, fu la
Discretione, la quale, sì come tu puoi aver conosciuto, gli uomini non vogliono
assaggiare per cosa del mondo-. Questi così fatti sogni dico io bene potersi raccontare e
con molta dilettatione e frutto ascoltare, perciò che più si rassomigliano a pensiero di
ben desta che a visione di addormentata mente o virtù sensitiva che dir debbiamo; ma gli
altri sogni sanza forma e sanza sentimento, quali la maggior parte de' nostri pari gli
fanno (perciò che i buoni e gli scientiati sono, etiandio quando dormono, migliori e più
savi che i rei e che gl'idioti) si deono dimenticare e da noi insieme col sonno
licentiare.
[ XIII ] E quantunque niuna cosa paia che si possa trovare più vana
de' sogni, egli ce n'ha pure una ancora più di loro leggiera, e ciò sono le bugie: però
che di quello che l'uomo ha veduto nel sogno pure è stato alcuna ombra e quasi un certo
sentimento, ma della bugia né ombra fu mai né imagine alcuna. Per la qual cosa meno
ancora si richiede tenere impacciati gli orecchi e la mente di chi ci ascolta con le bugie
che co' sogni, come che queste alcuna volta siano ricevute per verità; ma a lungo andare
i bugiardi non solamente non sono creduti, ma essi non sono ascoltati, sì come quelli le
parole de' quali niuna sustanza hanno in sé, né più né meno come s'eglino non
favellassino, ma soffiassino. E sappi che che tu troverai di molti che mentono, a niun
cattivo fine tirando né di proprio loro utile, né di danno o di vergogna altrui, ma
perciò che la bugia per sé piace loro, come chi bee non per sete, ma per gola del vino.
Alcuni altri dicono la bugia per vanagloria di se stessi, milantandosi e dicendo di avere
le maraviglie e di essere gran baccalari. Puossi ancora mentire tacendo, cioè con gli
atti e con l'opere; come tu puoi vedere che alcuni fanno, che, essendo essi di mezzana
conditione o di vile, usano tanta solennità ne' modi loro e così vanno contegnosi e con
sì fatta prorogativa parlano, anzi parlamentano, ponendosi a sedere pro tribunali
e pavoneggiandosi, che egli è una pena mortale pure a vedergli. Et alcuni si truovano, i
quali (non essendo però di roba più agiati degli altri) hanno d'intorno al collo tante
collane d'oro e tante anella in dito e tanti fermagli in capo e su per li vestimenti
appiccati di qua e di là, che si disdirebbe al Sire di Castiglione: le maniere de' quali
sono piene di scede e di vanagloria, la quale viene da superbia, procedente da vanità;
sì che queste si deono fuggire come spiacevoli e sconvenevoli cose. E sappi che in molte
città -e delle migliori- non si permette per le leggi che il ricco possa gran fatto
andare più splendidamente vestito che il povero, perciò che a' poveri pare di ricevere
oltraggio quando altri, etiandio pure nel sembiante, dimostra sopra di loro maggioranza;
sì che diligentemente è da guardarsi di non cadere in queste sciocchezze. Né dèe
l'uomo di sua nobiltà né di suoi onori né di ricchezza e molto meno di senno vantarsi;
né i suoi fatti o le prodezze sue o de' suoi passati molto magnificare, né ad ogni
proposito annoverargli, come molti soglion fare: perciò che pare che egli in ciò
significhi di volere o contendere co' circostanti, se eglino similmente sono o presumono
di essere gentili et agiati uomini e valorosi, o di soperchiarli, se eglino sono di minor
conditione, e quasi rimproverar loro la loro viltà e miseria: la qual cosa dispiace
indifferentemente a ciascuno. Non dèe adunque l'uomo avilirsi, né fuori di modo
essaltarsi, ma più tosto è da sottrarre alcuna cosa de' suoi meriti che punto arrogervi
con parole; perciò che ancora il bene, quando sia soverchio, spiace. E sappi che coloro
che aviliscono se stessi con le parole fuori di misura e rifiutano gli onori che
manifestamente loro s'appartengono, mostrano in ciò maggiore superbia che coloro che
queste cose, non ben bene loro dovute, usurpano. Per la qual cosa si potrebbe per aventura
dire che Giotto non meritasse quelle commendationi che alcun crede per aver egli rifiutato
di essere chiamato maestro, essendo egli non solo maestro, ma, sanza alcun dubbio,
singular maestro, secondo quei tempi. Ora, che che egli biasimo o loda si meritasse, certa
cosa è che chi schifa quello che ciascun altro appetisce mostra che egli in ciò tutti
gli altri o biasimi o disprezzi; e lo sprezzar la gloria e l'onore, che cotanto è dagli
altri stimato, è un gloriarsi et onorarsi sopra tutti gli altri, con ciò sia che niuno
di sano intelletto rifiuti le care cose, fuori che coloro i quali delle più care di
quelle stimano avere abondanza e dovitia. Per la qual cosa né vantare ci debbiamo de'
nostri beni, né farcene beffe, ché l'uno è rimproverare agli altri i loro difetti, e
l'altro schernire le loro virtù; ma dèe di sé ciascuno, quanto può, tacere, o, se la
oportunità ci sforza a pur dir di noi alcuna cosa, piacevol costume è di dirne il vero
rimessamente, come io ti dissi di sopra. E perciò coloro che si dilettano di piacere alla
gente si deono astenere ad ogni poter loro da quello che molti hanno in costume di fare, i
quali sì timorosamente mostrano di dire le loro openioni sopra qual si sia proposta, che
egli è un morire a stento il sentirgli, massimamente se eglino sono per altro intendenti
uomini e savi. -Signor, V(ostra) S(ignoria) mi perdoni se io no'l saprò così dire: io
parlerò da persona materiale come io sono e, secondo il mio poco sapere, grossamente, e
son certo che la S(ignoria) V(ostra) si farà beffe di me; ma pure, per ubidirla...-; e
tanto penano e tanto stentano che ogni sottilissima quistione si sarebbe diffinita con
molto manco parole et in più brieve tempo: perciò che mai non ne vengono a capo. Tediosi
medesimamente sono e mentono con gli atti nella conversatione et usanza loro alcuni che si
mostrano infimi e vili; et essendo loro manifestamente dovuto il primo luogo et il più
alto, tuttavia si pongono nell'ultimo grado; et è una fatica incomparabile a sospingerli
oltra, però che tratto tratto sono rinculati a guisa di ronzino che aombri. Perché con
costoro cattivo partito ha la brigata alle mani qualora si giugne ad alcun uscio, perciò
che eglino per cosa del mondo non voglion passare avanti, anzi sì attraversano e tornano
indietro, e sì con le mani e con le braccia si schermiscono e difendono che ogni terzo
passo è necessario ingaggiar battaglia con esso loro e turbarne ogni sollazzo e talora la
bisogna che si tratta.
[ XIV ] E perciò le cirimonie, le quali noi nominiamo, come tu odi,
con vocabolo forestiero, sì come quelli che il nostrale non abbiamo, però che i nostri
antichi mostra che non le conoscessero, sì che non poterono porre loro alcun nome; le
cirimonie, dico, secondo il mio giudicio, poco si scostano dalle bugie e da' sogni, per la
loro vanità, sì che bene le possiamo accozzare insieme et accoppiare nel nostro
trattato, poiché ci è nata occasione di dirne alcuna cosa. Secondo che un buon uomo mi
ha più volte mostrato, quelle solennità che i cherici usano d'intorno agli altari e
negli ufficii divini e verso Dio e verso le cose sacre si chiamano propriamente cirimonie:
ma, poiché gli uomini cominciaron da principio a riverire l'un l'altro con artificiosi
modi, fuori del convenevole, et a chiamarsi «padroni» e «signori» tra loro,
inchinandosi e storcendosi e piegandosi in segno di riverenza, e scoprendosi la testa e
nominandosi con titoli isquisiti, e basciandosi le mani come se essi le avessero, a guisa
di sacerdoti, sacrate, fu alcuno che, non avendo questa nuova e stolta usanza ancora nome,
la chiamò «cirimonia», credo io per istratio, sì come il bere et il godere si nominano
per beffa «trionfare». La quale usanza sanza alcun dubbio a noi non è originale, ma
forestiera e barbara, e da poco tempo in qua, onde che sia, trapassata in Italia: la
quale, misera, con le opere e con gli effetti abbassata et avilita, è cresciuta solamente
et onorata nelle parole vane e ne' superflui titoli. Sono adunque le cirimonie, se noi
vogliamo aver risguardo alla intention di coloro che le usano, una vana signification di
onore e di riverenza verso colui a cui essi le fanno, posta ne' sembianti e nelle parole,
d'intorno a' titoli et alle proferte. Dico vana, in quanto noi onoriamo in vista coloro i
quali in niuna riverenza abbiamo, e talvolta gli abbiamo in dispregio; e non di meno, per
non iscostarci dal costume degli altri, diciamo loro «lo Ill(ustrissi)mo signor tale» e
«lo Ecc(ellentissi)mo signor cotale», e similmente ci proferiamo alle volte a tale per
deditissimi servidori, che noi ameremmo di diservire più tosto che servire. Sarebbono
adunque le cierimonie non solo bugie, sì come io dissi, ma etiandio sceleratezze e
tradimenti; ma, perciò che queste sopraddette parole e questi titoli hanno perduto il
loro vigore, e guasta, come il ferro, la tempera loro per lo continuo adoperarli che noi
facciamo, non si dèe aver di loro quella sottile consideratione che si ha delle altre
parole, né con quel rigore intenderle. E che ciò sia vero lo dimostra manifestamente
quello che tutto dì interviene a ciascuno, perciò che, se noi riscontriamo alcuno mai
più da noi non veduto, al quale per qualche accidente ci convenga favellare, sanza altra
consideratione aver de' suoi meriti, il più delle volte, per non dir poco, diciamo
troppo, e chiamiamolo gentiluomo e signore a talora che egli sarà calzolaio o barbieri,
solo che egli sia alquanto in arnese. E sì come anticamente si solevano avere i titoli
determinati e distinti per privilegio del Papa o dello 'mperadore (i quai titoli tacer non
si potevano sanza oltraggio et ingiuria del privilegiato, né per lo contrario attribuire
sanza scherno a chi non avea quel cotal privilegio), così oggidì si deono più
liberalmente usare i detti titoli e le altre significationi d'onore a titoli somiglianti,
perciò che l'usanza, troppo possente signore, ne ha largamente gli uomini del nostro
tempo privilegiati. Questa usanza adunque, così di fuori bella et appariscente, è di
dentro del tutto vana, e consiste in sembianti sanza effetto et in parole sanza
significato, ma non pertanto a noi non è lecito di mutarla: anzi, siamo astretti, poiché
ella non è peccato nostro, ma del secolo, di secondarla: ma vuolsi ciò fare
discretamente.
[ XV ] Per la qual cosa è da aver consideratione che le cirimonie si
fanno o per utile o per vanità o per debito; et ogni bugia che si dice per utilità
propria è fraude e peccato e disonesta cosa, come che mai non si menta onestamente; e
questo peccato commettono i lusinghieri, i quali si contrafanno in forma d'amici,
secondando le nostre voglie, quali che elle si siano, non acciò che noi vogliamo, ma
acciò che noi facciamo lor bene, e non per piacerci, ma per ingannarci. E quantunque sì
fatto vitio sia per aventura piacevole nella usanza, non di meno, perciò che verso di sé
è abominevole e nocivo, non si conviene agli uomini costumati, però che non è lecito
porger diletto nocendo: e se le cirimonie sono, come noi dicemmo, bugie e lusinghe false,
quante volte le usiamo a fine di guadagno, tante volte adoperiamo come disleali e malvagi
uomini: sì che per sì fatta cagione niuna cirimonia si dèe usare.
[ XVI ] Restami a dire di quelle che si fanno per debito e di quelle
che si fanno per vanità. Le prime non istà bene in alcun modo lasciare che non si
facciano, perciò che chi le lascia non solo spiace, ma egli fa ingiuria; e molte volte è
occorso che egli si è venuto a trar fuori le spade solo per questo, che l'un cittadino
non ha così onorato l'altro per via, come si doveva onorare, perciò che le forze della
usanza sono grandissime, come io dissi, e voglionsi avere per legge in simili affari. Per
la qual cosa chi dice «voi» ad un solo, purché colui non sia d'infima conditione, di
niente gli è cortese del suo, anzi, se gli dicesse «tu», gli torrebbe di quello di lui
e farebbegli oltraggio et ingiuria, nominandolo con quella parola con la quale è usanza
di nominare i poltroni et i contadini. E se bene altre nationi et altri secoli ebbero in
ciò altri costumi, noi abbiamo pur questi, e non ci ha luogo il disputare quale delle due
usanze sia migliore, ma convienci ubidire non alla buona, ma alla moderna usanza, sì come
noi siamo ubidienti alle leggi etiandio meno che buone per fino che il Comune o chi ha
podestà di farlo non le abbia mutate. Laonde bisogna che noi raccogliamo diligentemente
gli atti e le parole con le quai l'uso et il costume moderno suole e ricevere e salutare e
nominare nella terra ove noi dimoriamo ciascuna maniera d'uomini, e quelle in comunicando
con le persone osserviamo. E non ostante che l'Ammiraglio, sì come il costume de' suoi
tempi per aventura portava, favellando col re Pietro d'Aragona gli dicesse molte volte
«tu», diremo pur noi a' nostri re «Vostra Maestà» e «La Serenità V(ostra)», così
a bocca come per lettere: anzi, sì come egli servò l'uso del suo secolo, così debbiamo
noi non disubidire a quello del nostro. E queste nomino io cirimonie debite, con ciò sia
che elle non procedono dal nostro volere né dal nostro arbitrio liberamente, ma ci sono
imposte dalla legge, cioè dall'usanza comune; e nelle cose che niuna sceleratezza hanno
in sé, ma più tosto alcuna apparenza di cortesia, si vuole, anzi si conviene ubidire a'
costumi comuni e non disputare né piatire con esso loro. E quantunque il basciare per
segno di riverenza si convenga dirittamente solo alle reliquie de' santi corpi e delle
altre cose sacre, non di meno, se la tua contrada arà in uso di dire nelle dipartenze:
-Signore, io vi bascio la mano- o -Io son vostro servidore- o ancora: -Vostro schiavo in
catena-, non dèi esser tu più schifo degli altri, anzi, e partendo e scrivendo, dèi
salutare et accommiatare non come la ragione, ma come l'usanza vuole che tu facci; e non
come si voleva o si doveva fare, ma come si fa. E non dire: -E di che è egli signore?- o
-E' costui forse divenuto mio parrocchiano, che io li debba così basciar le mani?-;
perciò che colui è usato di sentirsi dire «signore» dagli altri, e di dire egli
similmente «signore» agli altri, intende che tu lo sprezzi e che tu gli dica villania,
quando tu il chiami per lo suo nome, o che tu gli di' «messere» o gli dài del «voi»
per lo capo. E queste parole di signoria e di servitù e le altre a queste somiglianti,
come io di sopra ti dissi, hanno perduta gran parte della loro amarezza; e, sì come
alcune erbe nell'acqua, si sono quasi macerate e rammorbidite dimorando nelle bocche degli
uomini, sì che non si deono abominare, come alcuni rustici e zotichi fanno, i quali
vorrebbon che altri cominciasse le lettere che si scrivono agl'imperadori et ai re a
questo modo, cioè: «Se tu e' tuoi figliuoli siate sani, bene sta; anch'io son sano»,
affermando che cotale era il principio delle lettere de' latini uomini scriventi al Comune
loro di Roma, alla ragion de' quali chi andasse drieto, si ricondurrebbe passo passo il
secolo a vivere di ghiande. Sono da osservare etiandio in queste cirimonie debite alcuni
ammaestramenti, acciò che altri non paia né vano né superbo. E prima si dèe aver
risguardo al paese dove l'uom vive, perciò che ogni usanza non è buona in ogni paese, e
forse quello che s'usa per li Napoletani, la città de' quali è abondevole di uomini di
gran legnaggio e di baroni d'alto affare, non si confarebbe per aventura né a' Lucchesi
né a' Fiorentini, i quali per lo più sono mercatanti e semplici gentiluomini, sanza aver
fra loro né prencipi né marchesi né barone alcuno. Sì che le maniere di Napoli,
signorili e pompose, trapportate a Firenze, come i panni del grande messi indosso al
picciolo sarebbono soprabondanti e superflui, né più né meno come i modi de' Fiorentini
alla nobiltà de' Napoletani -e forse alla loro natura- sarebbono miseri e ristretti. Né
perché i gentiluomini Vinitiani si lusinghino fuor di modo l'un l'altro per cagion de'
loro ufficii e de' loro squittini, starebbe egli bene che i buoni uomini di Rovigo o i
cittadini d'Asolo tenessero quella medesima solennità in riverirsi insieme per nonnulla;
come che tutta quella contrada (s'io non m'inganno) sia alquanto trasandata in queste sì
fatte ciancie, sì come scioperata o forse avendole apprese da Vinegia, loro donna,
imperò che ciascuno volentieri sèguita i vestigii del suo signore, ancora sanza saper
perché. Oltre a ciò, bisogna avere risguardo al tempo, all'età, alla conditione di
colui con cui usiamo le cirimonie et alla nostra, e con gli infaccendati mozzarle del
tutto o almeno accorciarle più che l'uom può, e più tosto accennarle che isprimerle (il
che i cortigiani di Roma sanno ottimamente fare), ma in alcuni altri luoghi le cirimonie
sono di grande sconcio alle faccende e di molto tedio. -Copritevi- dice il giudice
impacciato, al quale manca il tempo; e colui, fatte prima alquante riverenze, con grande
stropiccio di piedi, rispondendo adagio, dice: -Signor mio, io sto ben così.- Ma pur dice
il giudice: -Copritevi!- E quegli, torcendosi due o tre volte per ciascun lato e
piegandosi fino in terra con molta gravità, risponde: -Priego V(ostra) S(ignoria) che mi
lasci fare il debito mio...-, e dura questa battaglia tanto, e tanto tempo si consuma, che
'l giudice in poco più arebbe potuto sbrigarsi di ogni sua faccenda quella mattina.
Adunque, benché sia debito di ciascun minore onorare i giudici e l'altre persone di
qualche grado, non di meno, dove il tempo no'l sofferisce, divien noioso atto e dèesi
fuggire o modificare. Né quelle medesime cirimonie si convengono a' giovani, secondo il
loro essere, che agli attempati fra loro; né alla gente minuta e mezzana si confanno
quelle che i grandi usano l'un con l'altro. Né gli uomini di grande virtù et eccellenza
soglion farne molte, né amare o ricercare che molte ne siano fatte loro, sì come quelli
che male possono impiegar in cose vane il pensiero. Né gli artefici e le persone di bassa
conditione si deono curare di usar molto solenni cirimonie verso i grandi uomini e
signori, che le hanno da loro a schifo anzi che no, perciò che da loro pare che essi
ricerchino et aspettino più tosto ubidienza che onore. E per questo erra il servidore che
proferisce il suo servigio al padrone, perciò che egli se lo reca ad onta e pargli che il
servidore voglia metter dubbio nella sua signoria, quasi a lui non istia l'imporre et il
comandare. Questa maniera di cirimonie si vuole usare liberalmente, perciò che quello che
altri fa per debito è ricevuto per pagamento e poco grado se ne sente a colui che 'l fa;
ma chi va alquanto più oltra di quello che egli è tenuto pare che doni del suo et è
amato e tenuto magnifico. E vammi per la memoria di avere udito dire che un solenne uomo
greco, gran versificatore, soleva dire che chi sa carezzar le persone con picciolo
capitale fa grosso guadagno: tu farai adunque delle cirimonie come il sarto fa de' panni,
che più tosto gli taglia vantaggiati che scarsi, ma non però sì che, dovendo tagliare
una calza, ne riesca un sacco né un mantello. E se tu userai in ciò un poco di
convenevole larghezza verso coloro che sono da meno di te, sarai chiamato cortese; e se tu
farai il somigliante verso i maggiori, sarai detto costumato e gentile; ma chi fosse in
ciò soprabondante e scialacquatore, sarebbe biasimato, sì come vano e leggiere, e forse
peggio gli averrebbe ancora, ché egli sarebbe avuto per malvagio e per lusinghiero e
(come io sento dire a questi letterati) per adulatore: il qual vitio i nostri antichi
chiamarono, se io non erro, piaggiare, del qual peccato niuno è più abominevole né che
peggio stia ad un gentiluomo. E questa è la terza maniera di cirimonie, la qual procede
pure dalla nostra volontà e non dalla usanza. Ricordiamoci adunque che le cirimonie, come
io dissi da principio, naturalmente non furono necessarie, anzi si poteva ottimamente fare
sanza esse, sì come la nostra natione, non ha però gran tempo, quasi del tutto faceva,
ma le altrui malatie hanno ammalato anco noi e di questa infermità e di molte altre. Per
la qual cosa, ubidito che noi abbiamo all'usanza, tutto il rimanente in ciò è
superfluità et una cotal bugia lecita; anzi, pure da quello innanzi non lecita, ma
vietata, e perciò spiacevole cosa e tediosa agli animi nobili, che non si pascono di
frasche e di apparenze. E sappi che io, non confidandomi della mia poca scienza, stendendo
questo presente trattato, ho voluto il parere di più valenti uomini scientiati; e truovo
che un re il cui nome fu Edipo, essendo stato cacciato di sua terra, andò già ad Atene
al re Teseo, per campare la persona (ché era seguitato da' suoi nimici), e dinanzi a
Teseo pervenuto, sentendo favellare una sua figliuola et alla voce riconoscendola (perciò
che cieco era), non badò a salutar Teseo, ma, come padre, si diede a carezzare la
fanciulla; e, ravvedutosi poi, volle di ciò con Teseo scusarsi, pregandolo gli
perdonasse. Il buono e savio re non lo lasciò dire, ma disse egli: -Confortati, Edipo,
perciò che io non onoro la vita mia con le parole d'altri, ma con le opere mie-: la qual
sentenza si dèe avere a mente; e come che molto piaccia agli uomini che altri gli onori,
non di meno, quando si accorgono di essere onorati artatamente, lo prendono a tedio, e
più oltre lo hanno anco a dispetto. Perciò che le lusinghe (o adulationi che io debba
dire) per arrota alle altre loro cattività e magagne hanno questo difetto ancora: che i
lusinghieri mostrano aperto segno di stimare che colui cui essi carezzano sia vano et
arrogante et, oltre a ciò, tondo e di grossa pasta e semplice sì che agevole sia
d'invescarlo e prenderlo. E le cirimonie vane et isquisite e soprabondanti sono adulationi
poco nascose, anzi palesi e conosciute da ciascuno, in modo tale che coloro che le fanno a
fine di guadagno, oltra quello che io dissi di sopra della loro malvagità, sono etiandio
spiacevoli e noiosi.
[ XVII ] Ma ci è un'altra maniera di cirimoniose persone, le quali di
ciò fanno arte e mercatantia, e tengonne libro e ragione: alla tal maniera di persone un
ghigno, et alla cotale un riso; et il più gentile sedrà in su la seggiola et il meno su
la panchetta: le quai cirimonie credo che siano state trapportate di Spagna in Italia, ma
il nostro terreno le ha male ricevute e poco ci sono allignate, con ciò sia che questa
distintione di nobiltà così appunto a noi è noiosa e perciò non si dèe alcuno far
giudice a dicidere chi è più nobile o chi meno. Né vendere si deono le cirimonie e le
carezze a guisa che le meretrici fanno, sì come io ho veduto molti signori fare nelle
corti loro, sforzandosi di consegnarle agli sventurati servidori per salario. E
sicuramente coloro che si dilettano di usar cirimonie assai fuora del convenevole, lo
fanno per leggierezza e per vanità, come uomini di poco valore, e perciò che queste
ciance s'imparano di fare assai agevolmente, e pure hanno un poco di bella mostra, essi le
apprendono con grande studio; ma le cose gravi non possono imparare, come deboli a tanto
peso, e vorrebbono che la conversatione si spendesse tutta in ciò, sì come quelli che
non sanno più avanti e che sotto quel poco di polita buccia niuno sugo hanno et a
toccarli sono vizzi e mucidi, e perciò amerebbono che l'usar con le persone non
procedesse più adentro di quella prima vista: e di questi troverai tu grandissimo numero.
Alcuni altri sono che soprabondano in parole et in atti cortesi per supplire al difetto
della loro cattività e della villana e ristretta natura loro, avisando, se eglino fossero
sì scarsi e salvatichi con le parole come sono con le opere, gli uomini non dovergli
poter sofferire. E nel vero così è, che tu troverai che per l'una di queste due cagioni
i più abondano di cirimonie superflue, e non per altro: le quali generalmente noiano il
più degli uomini, perciò che per loro s'impedisce altrui il vivere a suo senno, cioè la
libertà, la quale ciascuno appetisce innanzi ad ogni altra cosa.
[ XVIII ] D'altrui né delle altrui cose non si dèe dir male, tutto
che paia che a ciò si prestino in quel punto volentieri le orecchie, mediante la invidia
che noi per lo più portiamo al bene et all'onore l'un dell'altro; ma poi alla fine
ogniuno fugge il bue che cozza, e le persone schifano l'amicitia de' maldicenti, facendo
ragione che quello che essi dicono d'altri a noi, quello dichino di noi ad altri. Et
alcuni, che si oppongono ad ogni parola e quistionano e contrastano, mostrano che male
conoscano la natura degli uomini, ché ciascuno ama la vittoria, e lo esser vinto odia,
non meno nel favellare che nello adoperare: sanza che il porsi volentieri al contrario ad
altri è opera di nimistà e non d'amicitia. Per la qual cosa colui che ama di essere
amichevole e dolce nel conversare non dèe aver così presto il: -Non fu così- e lo -Anzi
sta come vi dico io-, né il metter sù de' pegni, anzi si dèe sforzare di essere
arrendevole alle openioni degli altri d'intorno a quelle cose che poco rilevano. Perciò
che la vittoria in sì fatti casi torna in danno, con ciò sia che vincendo la frivola
quistione si perde assai spesso il caro amico e diviensi tedioso alle persone, sì che non
osano di usare con esso noi, per non essere ognora con esso noi alla schermaglia; e
chiamanci per soprannome «M(esser) Vinciguerra», o «Ser Contraponi», o «Ser
Tuttesalle», e talora «il Dottor Sottile». E se pure alcuna volta aviene che altri
disputi invitato dalla compagnia, si vuol fare per dolce modo e non si vuol essere sì
ingordo della dolcezza del vincere che l'uomo se la trangugi, ma conviene lasciarne a
ciascuno la parte sua; e, torto o ragione che l'uomo abbia, si dèe consentire al parere
de' più o de' più importuni e loro lasciare il campo, sì che altri e non tu sia quegli
che si dibatta e che sudi e trafeli: che sono sconci modi e sconvenevoli ad uomini
costumati, sì che se ne acquista odio e malavoglienza; et, oltre a ciò, sono spiacevoli
per la sconvenevolezza loro, la quale per se stessa è noiosa agli animi ben composti, sì
come noi faremo per aventura mentione poco appresso. Ma il più della gente invaghisce sì
di se stessa, che ella mette in abbandono il piacere altrui: e, per mostrarsi sottili et
intendenti e savii, consigliano e riprendono e disputano et inritrosiscono a spada tratta,
et a niuna sentenza s'accordano, se none alla loro medesima. Il proferire il tuo consiglio
non richiesto niuna altra cosa è che un dire di esser più savio di colui cui tu
consigli, anzi un rimproverargli il suo poco sapere e la sua ignoranza. Per la qual cosa
non si dèe ciò fare con ogni conoscente, ma solo con gli amici più stretti e verso le
persone il governo e regimento delle quali a noi appartiene, o veramente quando gran
pericolo soprastesse ad alcuno, etiandio a noi straniero; ma nella comune usanza si dèe
l'uomo astenere di tanto dar consiglio e di tanto metter compenso alle bisogne altrui: nel
quale errore cadono molti, e più spesso i meno intendenti. Perciò che agli uomini di
grossa pasta poche cose si volgon per la mente, sì che non penano guari a deliberarsi,
come quelli che pochi partiti da essaminare hanno alle mani; ma, come ciò sia, chi va
proferendo e seminando il suo consiglio mostra di portar openione che il senno a lui
avanzi et ad altri manchi. E fermamente sono alcuni che così vagheggiano questa loro
saviezza che il non seguire i loro conforti non è altro che un volersi azzuffare con esso
loro, e dicono: -Bene sta; il consiglio de' poveri non è accettato- et -Il tale vuol fare
a suo senno- et -Il tale non mi ascolta-; come se il richiedere che altri ubidisca il tuo
consiglio non sia maggiore arroganza che non è il voler pur seguire il suo proprio. Simil
peccato a questo commettono coloro che imprendono a correggere i difetti degli uomini et a
riprendergli; e d'ogni cosa vogliono dar sentenza finale, e porre a ciascuno la legge in
mano: -La tal cosa non si vuol fare- e -Voi diceste la tal parola- e -Stoglietevi dal
così fare e dal così dire- e -'l vino che voi beete non vi è sano, anzi vuole esser
vermiglio- e -Dovreste usare del tal lattovaro e delle cotali pillole-; e mai non finano
di riprendere, né di correggere. E lasciamo stare che a talora si affaticano a purgare
l'altrui campo, che il loro medesimo è tutto pieno di pruni e di ortica; ma egli è
troppo gran seccaggine il sentirgli. E sì come pochi o niuno è cui soffera l'animo di
fare la sua vita col medico o col confessore e molto meno col giudice del maleficio, così
non si truova chi si arrischi di avere la costoro domestichezza, perciò che ciascuno ama
la libertà, della quale essi ci privano, e parci esser col maestro. Per la qual cosa non
è dilettevol costume lo essere così voglioso di correggere e di ammaestrare altrui; e
dèesi lasciare che ciò si faccia da' maestri e da' padri, da' quali pure perciò i
figliuoli et i discepoli si scantonano tanto volentieri quanto tu sai che e' fanno!
[ XIX ] Schernire non si dèe mai persona, quantunque inimica, perché
maggior segno di dispregio pare che si faccia schernendo che ingiuriando, con ciò sia che
le ingiurie si fanno o per istizza o per alcuna cupidità, e niuno è che si adiri con
cosa (o per cosa) che egli abbia per niente, o che appetisca quello che egli sprezza del
tutto: sì che dello ingiuriato si fa alcuna stima e dello schernito niuna o
picciolissima. Et è lo scherno un prendere la vergogna che noi facciamo altrui a diletto
sanza pro alcuno di noi, per la qual cosa si vuole nella usanza astenersi di schernire
nessuno: in che male fanno quelli che rimproverano i difetti della persona a coloro che
gli hanno, o con parole, come fece messer Forese da Rabatta, delle fattezze di maestro
Giotto ridendosi, o con atti, come molti usano, contrafacendo gli scilinguati o zoppi o
qualche gobbo. Similmente chi si ride d'alcuno sformato o malfatto o sparuto o picciolo, o
di sciocchezza che altri dica fa la festa e le risa grandi, e chi si diletta di fare
arrossire altrui: i quali dispettosi modi sono meritatamente odiati. Et a questi sono
assai somiglianti i beffardi, cioè coloro che si dilettano di far beffe e di uccellare
ciascuno, non per ischerno, né per disprezzo, ma per piacevolezza. E sappi che niuna
differenza è da schernire a beffare, se non fosse il proponimento e la intentione che
l'uno ha diversa dall'altro, con ciò sia che le beffe si fanno per sollazzo e gli scherni
per istratio, come che nel comune favellare e nel dettare si prenda assai spesso l'un
vocabolo per l'altro: ma chi schernisce sente contento della vergogna altrui e chi beffa
prende dello altrui errore non contento, ma sollazzo, là dove della vergogna di colui
medesimo, per aventura, prenderebbe cruccio e dolore. E come che io nella mia fanciullezza
poco innanzi procedessi nella grammatica, pur mi voglio ricordare che Mitione, il quale
amava cotanto Eschine che egli stesso avea di ciò maraviglia, non di meno prendea talora
sollazzo di beffarlo, come quando e' disse seco stesso: -Io vo' fare una beffa a costui-.
Sì che quella medesima cosa a quella medesima persona fatta, secondo la intention di
colui che la fa, potrà essere beffa e scherno: e perciò che il nostro proponimento male
può esser palese altrui, non è util cosa nella usanza il fare arte così dubbiosa e
sospettosa. E più tosto si vuol fuggire che cercare di esser tenuto beffardo, perché
molte volte interviene in questo, come nel ruzzare o scherzare, che l'uno batte per
ciancia e l'altro riceve la battitura per villania, e di scherzo fanno zuffa; così quegli
che è beffato per sollazzo e per dimestichezza si reca talvolta ciò ad onta et a
disonore e prendene sdegno, sanza che la beffa è inganno, et a ciascuno naturalmente
duole di errare e di essere ingannato. Sì che per più cagioni pare che chi procaccia di
esser ben voluto et avuto caro non debba troppo farsi maestro di beffe. Vera cosa è che
noi non possiamo in alcun modo menare questa faticosa vita mortale del tutto sanza
sollazzo né sanza riposo: e perché le beffe ci sono cagione di festa e di riso e, per
conseguente, di ricreatione, amiamo coloro che sono piacevoli e beffardi e sollazzevoli.
Per la qual cosa pare che sia da dire in contrario, cioè che pur si convenga nella usanza
beffare alle volte e similmente motteggiare. E sanza fallo coloro che sanno beffare per
amichevol modo e dolce sono più amabili che coloro che no 'l sanno né possono fare; ma
egli è di mestiero avere risguardo in ciò a molte cose; e, con ciò sia che la intention
del beffatore è di prendere sollazzo dello errore di colui di cui egli fa alcuna stima,
bisogna che l'errore nel quale colui si fa cadere sia tale che niuna vergogna notabile né
alcun grave danno gliene segua: altrimenti mal si potrebbono conoscere le beffe dalle
ingiurie. E sono ancora di quelle persone con le quali, per l'asprezza loro, in niuna
guisa si dèe motteggiare, sì come Biondello poté sapere da messer Filippo Argenti nella
loggia de' Caviccioli. Medesimamente non si dèe motteggiare nelle cose gravi, e meno
nelle vituperose opere, perciò che pare che l'uomo, secondo il proverbio del comun
popolo, si rechi la cattività a scherzo, come che a madonna Filippa da Prato molto
giovassino le piacevoli risposte da lei fatte intorno alla sua disonestà! Per la qual
cosa non credo io che Lupo degli Uberti alleggerisse la sua vergogna, anzi la aggravò,
scusandosi per motti della cattività e della viltà da lui dimostrata, ché, potendosi
tenere nel castello di Laterina, vedendosi steccare intorno e chiudersi, incontinente il
diede, dicendo che nullo Lupo era uso di star rinchiuso; perché, dove non ha luogo il
ridere, quivi si disdice il motteggiare et il cianciare.
[ XX ] E dèi oltre a ciò sapere che alcuni motti sono che mordono et
alcuni che non mordono; de' primi voglio che ti basti il savio ammaestramento che Lauretta
ne diede, cioè che i motti come la pecora morde deono così mordere l'uditore, e non come
il cane: perciò che, se come il cane mordesse, il motto non sarebbe motto ma villania; e
le leggi quasi in ciascuna città vogliono che quegli che dice altrui alcuna grave
villania sia gravemente punito; e forse che si conveniva ordinar similmente non leggieri
disciplina a chi mordesse per via di motti oltra il convenevole modo; ma gli uomini
costumati deono far ragione che la legge che dispone sopra le villanie si stenda etiandio
a' motti, e di rado e leggiermente pungere altrui. Et oltre a tutto questo, sì dèi tu
sapere che il motto, come che morda o non morda, se non è leggiadro e sottile gli uditori
niuno diletto ne prendono, anzi ne sono tediati, o, se pur ridono, si ridono non del
motto, ma del motteggiatore. E perciò che niuna altra cosa sono i motti che inganni, e lo
ingannare, sì come sottil cosa et artificiosa, non si può fare se non per gli uomini di
acuto e di pronto avedimento, e spetialmente improviso, perciò che non convengono alle
persone materiali e di grosso intelletto, né pure ancora a ciascuno il cui ingegno sia
abondevole e buono, sì come per aventura non convennero gran fatto a messer Giovan
Boccaccio; ma sono i motti spetiale prontezza e leggiadria e tostàno movimento d'animo.
Per la qual cosa gli uomini discreti non guardano in ciò alla volontà, ma alla
disposition loro, e, provato che essi hanno una e due volte le forze del loro ingegno
invano, conoscendosi a ciò poco destri, lasciano stare di pur voler in sì fatto
essercitio adoperarsi, acciò che non avenga loro quello che avenne al cavaliero di
madonna Orretta. E se tu porrai mente alle maniere di molti, tu conoscerai agevolmente
ciò che io ti dico esser vero: cioè che non istà bene il motteggiare a chiunque vuole,
ma solamente a chi può. E vedrai tale avere ad ogni parola apparecchiato uno, anzi molti,
di quei vocaboli che noi chiamiamo bistìccichi, di niun sentimento; e tale
scambiar le sillabe ne' vocaboli per frivoli modi e sciocchi; et altri dire o rispondere
altrimenti che non si aspettava, sanza alcuna sottigliezza o vaghezza: -Dove è il
signore? -Dove egli ha i piedi!- e -Gli fece ugner le mani con la grascia di San Giovan
Boccadoro- e -Dove mi manda egli?- -Ad Arno!-; -Io mi voglio radere- -E' sarebbe meglio
rodere!-; -Va chiama il barbieri- -E perché non il barba ... domani?!-: i quali, come tu
puoi agevolmente conoscere, sono vili modi e plebei; cotali furono, per lo più, le
piacevolezze et i motti di Dioneo. Ma della più bellezza de' motti e della meno non fia
nostra cura di ragionare al presente, con ciò sia che altri trattati ce ne abbia, distesi
da troppo migliori dettatori e maestri che io non sono, et ancora perciò che i motti
hanno incontinente larga e certa testimonianza della loro bellezza e della loro
spiacevolezza, sì che poco potrai errare in ciò, solo che tu non sii soverchiamente
abbagliato di te stesso, perciò che dove è piacevol motto ivi è tantosto festa e riso
et una cotale maraviglia. Laonde, se le tue piacevolezze non saranno approvate dalle risa
de' circonstanti, sì ti rimarrai tu di più motteggiare, perciò che il difetto fia pur
tuo, e non di chi t'ascolta, con ciò sia cosa che gli uditori, quasi solleticati dalle
pronte o leggiadre o sottili risposte o proposte, etiandio volendo, non possono tener le
risa, ma ridono mal lor grado; da' quali, sì come da diritti e legitimi giudici, non si
dèe l'uomo appellare a se medesimo, né più riprovarsi. Né per far ridere altrui si
vuol dire parole né fare atti vili né sconvenevoli, storcendo il viso e contrafacendosi,
ché niuno dèe, per piacere altrui, avilire sé medesimo, che è arte non di nobile uomo,
ma di giocolare e di buffone. Non sono adunque da seguitare i volgari modi e plebei di
Dioneo («madonna Aldruta, alzate la coda...»), né fingersi matto, né dolce di sale,
ma, a suo tempo, dire alcuna cosa bella e nuova e che non caggia così nell'animo a
ciascuno, chi può, e chi non può, tacersi: perciò che questi sono movimenti dello
'ntelletto, i quali, se sono avvenenti e leggiadri, fanno segno e testimonianza della
destrezza dell'animo e de' costumi di chi gli dice, la qual cosa piace sopra modo agli
uomini e rendeci loro cari et amabili, ma, se essi sono al contrario, fanno contrario
effetto, perciò che pare che l'asino scherzi, o che alcuno forte grasso e naticuto danzi
o salti spogliato in farsetto.